Ho voluto mettere le cuffie, perché tutto il resto mi avrebbe disturbato per scrivere di Anima Latrina e del suo autore Enrico Lanza, nascosto dietro lo pseudonimo Mapuche. Posso affermare con certezza che, prima di ascoltare le cinque tracce dell’Ep del cantautore catanese, sia necessario dare un’ occhiata al foglio illustrativo e accertarsi delle controindicazioni per claustrofobici, cardiopatici, paranoici, dissociati e soggetti ipersensibili.
Anima Latrina, titolo sulla soglia del dètournement dell’album capolavoro di Lucio Battisti scritto con Mogol dopo un viaggio in Sudamerica (e dal Sudamerica viene anche il popolo cileno dei Mapuche), è essenzialmente un concept autobiografico, dove per autobiografico deve sottintendersi un transfert empatico che prende vita nel momento in cui i testi di Mapuche, oltre che a faticare per cacciarli via dalla testa peggio di uno spensierato tormentone mainstream, si fanno strada in modo invasivo nella nostra coscienza.
L’input di Anima Latrina è “Controgiovane”, sostanziosa pillola di presentazione: “Mi chiamo Mapuche e non ho un soldo in tasca, nessuna voglia o prospettiva di mutare la mia situazione che allo stato attuale delle cose è assai indicibile, c’è chi per me addirittura medita la gogna. Mi chiamo Mapuche e sono nella merda”, corredata da un’invettiva, tutt’altro che benevola, nei confronti del vuoto pneumatico dei giovani d’oggi incapaci di raggiungere la soglia minima di senso critico per “distinguere Dante da una lavatrice”.
E nonostante la durezza delle affermazione lasci adito a (in)comprensibili repliche e astensioni, non si può non accennare a gesti di compita, e a tratti dovuta, approvazione. La chitarra di Mapuche è minimale, ma la determinazione di ogni plettrata è nettissima, indirizzata dalla rabbia che l’arte tira fuori meglio di qualunque discussione in seduta psichiatrica (“Cherosene” e “Calcestruzzo”). Scortati dagli arpeggi grezzi, scarni e sempre sul filo dell’alienazione, l’Ep ci spinge in territori oscuri, costituiti da frammenti che rievocano i personaggi dei film di Aki Kaurismaki, come se fossero stati strappati via direttamente dalle pellicole.
Il disagio disinteressato dell’uomo enigmatico che indossa la maschera di Enrico Lanza riecheggia in ululati scordati, sputati sul pavimento davanti a sé come se stesse imbracciando la chitarra durante la peggiore delle sbronze e se, da un lato, “Fatimah” è il feticcio perfetto per distrarre l’ascoltatore dalla sua figura e avvicinarla a quella che parrebbe essere il suo nume tutelare Rino Gaetano, dall’altro non c’è alcun dubbio che Mapuche abbia un talento che gli è proprio, a priori da qualunque facile paragone possa essere fatto.
A chiudere Anima Latrina è “Fogna”, uno di quei brani che davvero non riesci a cacciar fuori dal cervello neanche a cantare l’hully-gully, ed è a mio parere summa dell’intero ep e vero manifesto del pensiero del cantautore catanese. La chicca di abile destrezza all’interno del brano, e inoltre dimostrazione di profonda conoscenza del cantautorato italiano tutto, è la citazione da “Marcia Nuziale” del geniale Flavio Giurato, in “Il tuffatore” del 1982, “le delusioni sono unite dalla ferrovia”, incasellata come un diamante nello scorrere del testo; tutto ciò a riprova più di ogni altra cosa della concreta, e non solo teorica, distanza di Mapuche dai paragoni con il cantautorato comodo, come quello in cui sono passati, ahinoi, Rino Gaetano & Co, per mano dei facili entusiasmi e delle povere interpretazioni.
Anima Latrina si affranca dal raccontarci della crisi che imperversa, della corruzione che dilaga all’interno di un’intera classe politica, della totale assenza di speranze per un’intera generazione, dell’amore e delle sue storie andate a male, di quelle andate bene, delle ciminiere metropolitane e di amici che ci hanno traditi, perché Anima Latrina si emancipa sia dal generale che dalla superficie delle cose e, mai come nessuno di questi tempi, ci racconta come stiamo dentro, non quello che facciamo fuori. E se questo è il merito di Mapuche, allora passiamo pure sopra alle sbavature di questo piccolo capolavoro, augurandoci che ogni psicanalista possa avere la sua faccia e tirare fuori quel lato nascosto, e necessario, che ognuno di noi si porta dietro come un fantoccio da sconfiggere, invece che come un mistero da mostrare. Appunto la nostra anima latrina.
(Simona Cannì)