Vagando nelle infinite possibilità che la nuova musica underground offre, si può prendere il vizio di bestemmiare e rinnegare qualche “supremazia” celeste per le ingiustizie che magari ti capita di incontrare in questi gironi danteschi, per certe soluzioni musicali e per certe formazioni che, invece di perdere moneta e sogni nelle astanterie croniche delle quinte di provincia, potrebbero benissimo firmare contratti “sonanti”, avere un podio riconoscente e ciondolare in tour estenuanti con la lingua penzoloni. E il vizio e la bestemmia di cui sopra si sono materializzati cadendo sulle tracce di Yarn il dodici piste della band Desert Motel, quartetto di Aprilia (Rm) che, sotto le false sembianze di un disco di routine – come ce ne sono a bizzeffe – sforna un piccolo capolavoro d’alta “ingegneria sonica” che da biada a tante realtà alternative scaffalizzate.
La tracklist macina canzoni a cui non si può resistere, canzoni e ballate di quel pop-indie di matrice americana che non smarriscono l’aggancio con la realtà quotidiana, anzi la colorano e l’innalzano a tempo indeterminato; un tempo per questo tipo di musica la parola magica era attitudine, indicazione dunque di un atteggiamento piuttosto che di un suono, ora con i Desert Motel si può definitivamente parlare di “grazia dal di sotto” che arriva per dare una personale traduzione al fattore o ai fattori che portano alle esperienze uditive uniche, toste e magnifiche.
Potrebbero suonare tronfie queste righe di manifesta adulazione, ma quando si è davanti a queste proporzioni apicali della musica “sconosciuta” ai più, si vorrebbe urlare gioiosamente alla miracolistica subentrata, ma la vera scoperta resta e appartiene alla massa mentre a noi della critica compete il solo suggerire “seguite le direttrici giuste”, poi se si è intelligenti si è a metà dell’opera altrimenti ciccia.
Con i Gloden Smoke, Wilco, Loose Fur dentro la fodera di qualche taschino, le nebbioline Brit (“Paperstar”), (“Valentine’s gone”) e gli orgasmici giochi poetici di Noel Gallagher (“Something”), la band arriva a trascendere in immagini ed atmosfere piacevolissime, liquide e scorrevoli da ascoltare stravaccati tra un delirio di vita e un sogno diurno, in un personale concerto, uno showcase che avvolge caldo e limpido come il patchwork che riscalda il tatto sulla cover; ad occhi chiusi come una saracinesca mentre passano le onde accarezzevoli di “Misery road”, scorre il fluido leggermente wave di “Flowers” o ballando frizzantini quando “Kurt” arriva con la sua versalità elettrica a scandire le pimpanti silhouette Beatlesiane.
Se si vuole, fare musica bella è possibile, qui ne abbiamo un forte esempio, e con referenti simili come Desert Motel una nuova scolarizzazione d’impronta si fa avanti, allievi non ne mancheranno certamente, quello che invece rimane è il vizio intrapreso della bestemmia, ma dopo essere passati sotto l’immaginifico di questo disco, ogni redenzione è vicina “Let it shine”. Favoloso!
(Max Sannella)