Per cercare il proprio nome, i NUT si sono spinti fin sulle sponde del Nilo e lì, tra le infinite suggestioni di una civiltà che non ha mai smesso di affascinare, hanno scoperto l’esistenza di questa dea egizia che come la notte divora il sole al tramonto e lo partorisce al mattino. Ma chi sono i NUT?
Formatisi nel 2009 e con un EP (HAPAX) alle spalle, escono ora col primo LP intitolato Gravità inverse, prodotto e mixato da Giulio “Ragno” Favero, compagno di avventure di mister Capovilla nei vari teatri orrorifici e uomini ad una dimensione. Non mancano le ospitate importanti, tra le quali l’onnipresente Nicola Manzan (più di lui forse solo l’ubiquo Enrico Gabrielli) e Marina Mulopulos (Almamegretta, Malfunk, Tilak), ad impreziosire il sound del trio che per l’originalità non punta sicuramente sul nome dei componenti: Matteo Sciocchetto (voce e chitarra), Matteo Puoti (basso ed effetti)e Matteo D’ignazi (batteria, percussioni ed elettronica). Ma non occupandoci noi di onomastica, rimaniamo invece ben impressionati dalla proposta musicale: una miscela di neo-prog e post-rock, che sa tingersi di colori world come nella bellissima “Mosaico”, probabilmente il miglior brano dell’album. Sorprende piacevolmente anche, e soprattutto, la scelta della madrelingua per quanto riguarda le liriche, scelta tutt’altro che banale per un genere che difficilmente è uscito vivo dallo scontro con l’italiano (in questo senso il suono dell’intero lavoro richiama alla mente Solo un grande sasso dei Verdena). “Gravità inverse” conta così sette tracce potenti, in continua evoluzione, capaci di uno sviluppo progressivo senza risultare stucchevoli, ma anzi mantenendo sempre un gusto alt-rock in grado di smorzare così eventuali fronzoli superflui o sterili virtuosismi. Certo, non si tratta di un album di facile assimilazione o di presa immediata (specialmente per i non amanti del genere), anche per la durata delle tracce non propria radiofonica (la media si aggira intorno ai 7 minuti) e a tratti un po’ ridondante. È però giusto segnalare l’intelligente lavoro di smussamento degli angoli prog in favore di una maggiore dilatazione post-rock, che permetterà alla band di incontrare senza dubbio i favori di un pubblico più eterogeneo e magari conquistare anche il cuore di qualche giovane indie, che di fronte al termine “progressive” solitamente perde ogni soffio vitale come Nosferatu all’alba.
(Federico Anelli)