Premessa: questo è un disco che fa schifo per quanto bello. C’è chi crede che tutto sia casuale. Chi pensa che siamo artefici del nostro musicale destino e chi è convinto che siano entità superiori a deciderlo per noi. Fatto sta che a volte l’udito prende direzioni che non ci saremmo mai immaginate, così ci s’innamora di un tic, di un frame o d’una semplice collana di perle poetiche, ed è così che ci si è innamorati di questo tepore chiamato L’ombra della mosca del cantautore spezzino Cristiano Angelini, bel personaggio che fa cucù discografico per la prima volta sulla larga scena; il suo “amanuense raccontare” di strade, storie, radenti, fantasmi, sdruccioliì e sarcasmi, colorato di sfumature avvinazzate da fondo di bottiglia amaro e inzaccherato d’illusioni sui baveri di notti confinanti con albe puttane, è una full immersion nell’intimo di una scrittura che regala brividi e coccole autunnali.
Uno di quei dischi che da aria e toglie il respiro per darti modo di farlo entrare nel circuito dell’immaginazione, che non tralascia nessun punto fondamentale per autocostruirsi un’aura cantautorale schietta, indagante e, nella sua favolistica urbana (“La juta di Klaus”), bella, colta e a portata di “volo personale” senza limiti; con l’artista ligure in questa avventura, oltre che al valente accompagnamento di Marco Spiccio, Damiano Rotella, Federico Bagnasco e Matteo Nahum, due chicche, Vittorio De Scalzi e Max Manfredi, tutti insieme – più o meno – a frequentare queste undici gocce di vino rosso cadute sulla tovaglia della vita.
Flussi eleganti di flamenchi, milonghe (“Il profumo del canto”), tralci di violoncelli che ricamano con giri acustici di chitarra macramè a ripetizione, sbuffi di folk-prog (“Aisha la maga”), l’arpeggio imbronciato che lacrima sulla voce di De Scalzi (“La polvere dei guai”), la spiritualità di un Fossati che aleggia in “L’ombra della mosca” dove Manfredi fa cameo vocale, diamante grezzo che emana luce opaca e infila un magone in gola; poi, se vogliamo andar per mare il movimento di bacino brazileiro (“L’aroma di caffè”) o vogliamo sgranchirci gambe e testa col foxtrot alla Arsenio Lupin che si agita guascone ruffiano nella ghost-track, lo share del piacere schizza al top, e l’opera di questo cantautore a pelle, ingrassato a pane e Lauzi, Lolli, Conte, De Andrè più in là e il Fossati aviatore di sogni più in alto, immediatamente si fa merce da sgraffignare avidamente, consumandola in dosi industriali se si ha fame di storie talmente limpide che nemmeno l’ombra di una mosca si permetterebbe di offuscare. Stupendo.
(Max Sannella)