Approdiamo su di un lavoro discografico fine, elegantissimo e – non me ne vogliano i detrattori – finalmente per pochi eletti, fuori della massa informe dell’ordinarietà forzata; in Who’s Breathing, secondo album del cantautore canadese Ryan Driver, si torna a respirare quella sensazione sopraffina di pulizia e stratificazione easy-jazz e sweetly-folk che delizia l’apparato uditivo – delizia quasi scomparsa nel nulla – nella quale si possono riconoscere gli idiomi sofisticati e trasparenti di Will Oldham e John Martin, due stelle che si mettono in fila indiana per cristallizzare oltre modo la bella scrittura di Driver.
L’idea di trovare una via privilegiata che lega il folk al jazzly è bella, il risultato è ben suonato e cantato, decisamente presente e a segmenti psichedelico ed interpretato – specie nella Buckleyana “Tell me true” – da un songwriter ammantato di un sensi estetici brillanti e sconfinati; la ricercatezza stilistica di Driver che certamente non arriva dal primo album della sua carriera, quel Feeler of pure joy che non aveva lasciato onestamente molte speranze – meno male errate – di proseguimento della carriera del canadese, arriva da una personale rivoluzione interna, da un punto di vista cerebrale ed intraprendente che prende interessi musicali non più dalle spensieratezze “only folk”, ma dalle scuole di pensiero sensibili che omaggiano le interiorità d’essere fonti speciali su cui ragionare e abbandonarsi beatamente.
E tanto per rimarcare e – per i neofiti – sperimentare questi abbandoni corporei in formato disco, si possono assaggiare le spazzole smooth-jazz velate de “It’s tulip season”, nebbia caldissima tra il Chet Baker e Robert Wyatt, il clubbing confidenzialmente soul su piano (“Don’t want to leave you without you”), una rimpatriata nella country lap-steel ballad “Dead end street”. Moltissimi gli strumenti strani ed inusuali – quasi da rigattiere – che Drive usa per accompagnare le sue canzoni quali seghe a manico per tagliare gli alberi, pianole giocattolo, il flauto da naso e –udite udite – il mouth speaker, una sorta di altoparlante per cellulare che avvicinato alla bocca simula lo spiritato effetto di un wah-wah, praticamente uno spettacolo nello spettacolo dove l’arte della creatività viene fatta alamaro da esibire in grandeur.
Le oscure torch-song “Whether they like it or not”, “When now to never”, dilatazioni jazzly che traducono all’inverosimile le potenziali vincite di affezione future verso questo artista completo e sincero, lasciano lo stereo con la testa tra le nuvole, dentro una bolla tenera e fantastica creata dalla sensibilità non comune di un giovane artigiano della musica d’autore. Eccellente!
(Max Sannella)