Cinque anni fa, nel 2006, quando per la prima volta si iniziò a parlare di Zach Condon in arte Beirut, due cose sul suo conto mi sembravano piuttosto incredibili. La prima era che provenisse dal New Mexico e la seconda era che quella voce profonda e matura uscisse dalla gola di un ragazzo così dannatamente giovane.
Se alla seconda faccio fatica ancora adesso a credere, per quanto riguarda la prima accettai con piacere il fatto che ci fosse qualcuno nel sudovest americano dotato di un talento tale da riuscire a realizzare un simile folk pop al gusto di patto di Varsavia piuttosto che di ispirazione ispanica. Per queste ed altre ragione, Gulag Orkestar fu un successo enorme quell’anno e, cosa ben più importante, diede modo a chi si occupa di musica di brandire l’ennesima nuova e puntale definizione per descriverne il suono, il balkan pop.
Successivamente, dopo aver già portato i loro ritmi tzigani fino a Bratislava, passando per la porta di Brandeburgo e sfiorando l’Italia, con l’uscita di The Flying Club Cup nel 2007 Condon e la sua banda di suonatori erranti aggiunsero nuove tappe a questo bizzarro quanto anacronistico interrail puntando diritti verso la Francia con il piglio dei veri chansonier.
Quest’anno invece è la volta di The Rip Tide, l’ultimo disco di Beirut, con il quale si celebra il ritorno a casa, lì dove il viaggio era cominciato. In The “Rip Tide” ricorrono qua e là i suoni e le atmosfere che erano dominanti nei dischi precedenti ma è soprattutto il disco con il quale si compie la maturazione in chiave pop di Beirut. Meno Goran Bregovic e più Sufjan Stevens, una frase che quasi quasi vale la pena di farsi tatuare. La prima prova di questa evoluzione è intitolata proprio “Santa Fe”, nella quale al ritmo di un synth incalzante un Condon ballerino fa la pace con le proprie origini dopo averne girato al largo per tanto tempo, ma anche la successiva “East Harlem”, scritta a soli 17 anni eppure già così perfetta, ci conferma che questa volta le fascinazioni balcaniche sono rimaste sull’uscio. “Goshen” invece, in un crescendo di percussioni ed emozioni, mette ancora più in risalto quello che è sempre stato uno dei punti di forza di Beirut, ovvero la capacità melodrammatica del canto di Condon, il quale per una volta confessa apertamente agli ascoltatori nostalgie e paure private.
Allo stesso modo “Vagabond” e “The Peacock” sono altre due perle di questo album che non sarebbero state per nulla male dentro 69 Love Songs dei Magnetic Fields, e cioè la raccolta di canzoni pop-folk più bella di sempre, ma ad essere sinceri ciascun pezzo di “The Rip Tide” meriterebbe nella stessa misura di essere citato ed elogiato per la sua bellezza.
In definitiva, in questa terza parte del suo viaggio, Beirut ci sorprende consegnando se stesso ai piaceri della melodia senza perdere nemmeno un po’ di quella forza evocativa che ha sempre ricoperto un ruolo fondamentale nella sua musica. Malgrado i segni della solita epica malinconia, Condon, con quella faccia un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Novi Sad, ci appare in questa ultima veste più sereno e a fuoco che mai: “The Rip Tide” è il suo disco più bello e maturo, facile da amare e difficile da sostituire, colonna sonora di questa afosa estate passata a cercare un po’ di pace e di quelle a venire.
(Alberto Mazzanti)