Liars, Franz Ferdinand, quelle atletiche molle umane dei RHCP – per citarne alcuni tra i più blasonati figliocci – devono moltissimo, al limite dell’ipoteca a questi redivivi ex-eroi della Leeds catramosa del post-punk, che andavano ad iniettare cc di funk nelle fessure della loro musica “di riscatto” per rivitalizzare la colonna vertebrale spezzata dei suoni inglesi dai fine seventies e per tutto il giro degli 80.
Ma questo per quanto riguarda la genesi. Tornano i Gang Of Four o meglio i sopravissuti dello stato embrionale, Andy Gill e Jon King e con loro la tentazione di ricompattare quella nebbia caratteriale della loro esistenza in musica, ma che a sedici lustri da quel micidiale Shrinkwrapped si è diradata e si muove senza clamore; molto probabilmente questo Content è davvero un contentino – si patinato e prodotto con tutti i crismi del lucido – che farà rivoltare vecchi adulatori e infiammare stuoli di “cecchini detrattori”. Guerra di sensi o evoluzione smaniosa di tornare a dire qualcosa e riprendere il fil noir per stilare una nuova stagione gonfia esasperatamente d’entertainment post-qualcosa? Né l’uno né l’altro, solo una caduta rovinosa che male si adatta – addirittura si nega – a quella sintomatica aspettativa che s’anela nell’aspettare un ritorno o rimpatriata che si voglia.
Con un passato alle spalle tra i più politicizzati della new vave, i GOF in questo “return forever” portano un’infinita malinconia che s’impossessa dei ricordi distruggendoli, cancellandoli per un upgrade inconcludente e dettato dal dio danaro; non vogliono mollare la presa, ma non ci sono più quelle profondità miliari che grattavano, scavavano, facendo brillare corpi e coscienze, c’è un giro melenso e danzereccio dall’estetica bonacciona alla Duran Duran (“Who I Am?”), armonie vocali che tradiscono un amore viscerale – troppo grassettato – per il glam intransigente e imbellettato di Ferry e Bowie ( o la passione riverberata per giovanissimi Simple Minds (“You’ll Never Pay For The Farm”), un risucchio di cose catchy assolutamente da riporre in qualche sottopalco dell’indecenza.
Non lasciarsi imbambolare dalle due tracce di testa (“She Said You Made A Thing Of Me” e “ You Don’t Have To Be Mad”) pregne dei tempi auriferi della lattiginosa ed elettrica wave, è un trabocchetto imperdonabile che regge pochissimo, poi la discesa negli inferi di riff, virtuosismi, ballate di plastica che non renderebbero servizio nemmeno alla raccolta differenziata – per farvi un’idea, un test senza impegnare lo stereo, fatevi un giro su “I Can See From Far Away” e immaginerete il fù Michael Jackson rivoltarsi tra le libbre d’oro della sua bara.
Si è sempre sull’avviso che quando non si ha più nulla da barattare è meglio soprassedere e curare altri hobbies, magari sarebbe molto più interessante – che so – studiare la storia dei Gang Of Four dissidenti della Cina post-Maoista….. della serie “tanto noia per noia”.
(Max Sannella)