Nulla sfugge alla Elevator Records, ogni sua scelta e produzione è un piccolo gioiello underground pronto a sciamare in largo e lungo lo Stivale nostrum. I torinesi Klinefelter sono gli ultimogeniti della label e con l’irruenza di Throat, sono qui a ribadire – ai sordi che non “vogliono sentire” – che le strade rivoltose e contaminate da/per il grunge non si sono dissolte nel nulla, ma covano sotto le ceneri fumanti mai sfuggite al controllo delle proporzioni esclusive del rock sanguigno.
La band definisce il proprio move-it rock post-atomico, ma ben lungi dalla consuetudine di quel rock con le zanne tipo “lasciate ogni speranza, voi che entrate”, ma che – diametralmente opposto – comunque non ammette fraintendimenti di sorta; Violent Femmes, Live, Pearl Jam e Collective Soul si ritrovano in questo bel tredici tracce che suona ben al di là d’idee preconcette, alla stregua di un veicolo privilegiato per sperimentare anche “interventi sonori” sul bordo scivoloso del rock “Deep treason”, “Cure my baby” tra tutte.
Attiva dal 1999, la band tiene bene in mano il timone del loro intento amplificato, conducono l’ascolto verso territori di contaminazione visionari e poco frequenti, un balance che tra la Seattle fumosa ed elegie mid-core alla Porno For Pyros (“Like eggs”, “You in the fire”) va a definire un paesaggio indomato, selvaggio, ancora sfuggito al controllo del “già sentito”, e questo non è altro che valore aggiunto per una formazione che ancora – purtroppo – si trova a schiumare rabbia & distorsori nei gironi danteschi dell’emergenza. Girano come in una trottola queste tracce, la ribellione ed il pogo invalidante (“Dwywd”), il giro dandy di chitarra (“Suicide”), il velluto nero degli AInC (“So far”) o il blues maledetto sulle pieghe di Jack White (“No lies”) che chiude in maniera eccellente il registrato; girano a mille tanto che non basta un giro di giostra per fare entrare il disco nella ragione – affermata – di un lavoro discografico che assomiglia ad un blitz inaspettato, un risultato eccellente che sin dalla cover mostra il morso duro giusto di chi ha ragione sul fatto che “non serve dimenarsi sui sentimenti, ma sentimentalizzare la sollecitazione del suono”.
(Max Sannella)