É proprio il caso di dire “come il cacio sui maccheroni”! Nell’occhio di un’estività tropicalizzata ed appiccicosa ma anche regno di sbimbocciate e torridi barbecue non poteva mancare certamente il disco né carne né pesce ma speciale per fare da sottofondo a pomeriggi oziosi e serate stravaccate. Il pop sintetico racchiuso in Native To dei londinesi Is Tropical è un eterno bilanciamento tra gli anni ottanta ed il sintherismo odierno, di quello che conserva all’interno anche quelle botte di stunz stunz stunz che s’insinuano come tarli picchiatori qua e la tra le tracce, comunque deboli, asfittiche e con poco succo.
These New Puritans? Holy Ghost!? Qualcosa dei Klaxons? È ricco il parterre delle ispirazioni prepotenti della band la quale per non scontentare i giovani fans mischia di tutto e di più, mettendo al mondo un disco di cui si potrebbe chiedere una moratoria intelligente da parte dell’ascolto dei più.
La musica che propone il gruppo è un melange d’elettronica e pop, costruita su melodie carezzevoli, drum machine e altre amenità che ballonzolano tra ieri ed oggi – come già detto – ma che non trova la formula magica per arrivare ad un pubblico preciso, né uno stile preciso che lo elevi dai mille replicanti di modelli di successo; vorrebbero trovare la via per la canzone perfetta e per la fama a presa rapida, ma siamo lontani mille miglia dal punto nodale d’arrivo, specie se non ci si staccano i canini dell’infinita vampirizzazione degli ottanta che hanno già dato, ripeto già dato, fino all’ultima goccia del loro sangue anemico e malato. Dentro molti fantasmi da esorcizzare, nostalgie alla Thompson Twins e art dance come si usava ai tempi andati dei Material, ma anche quella rendita responsabile di un giovane gruppo che si muove su terreni che deluderanno chi cerca perlomeno un barlume di sperimentazione e di rinnovamento nel progetto Is Tropical; mettendo l’orecchio a random tra l’intrico delle dodici piste si assaggia un “tutto” che va dalle baldorie elettroniche alla Chemical Brothers (“Zombies”) agli avvicinamenti di primo grado con i White Lies anche troppo ravvicinati (“Lies”), dalla felicità di loop e campionatori della sbarazzina “Clouds” alla fase di stanca che già si avverte in “I’ll take my chances” e nello spompamento di una chitarra sgallettata che in “Berlin” decreta il destino infausto di questo prodotto discografico del quale se ne poteva veramente farne a meno.
Quarantacinque minuti persi alla ricerca di un briciolo di “divagante” che potesse almeno fare alzare la bandiera iridescente di una nuova onda musicale, ma questa è un’altra storia che per l’ennesima volta ci nega l’occasione.
(Max Sannella)