Ascoltare Stack è come leggere un libro o assistere a una lezione di storia che scorre su una linea del tempo compresa tra la Francia di Luigi XV, la Grande Guerra di posizione, vissuta dall’Altopiano di Asiago e la società post-consumistica della televisione italiana.
I Kepsah hanno puntato molto sul loro secondo lavoro anche dal punto di vista del supporto fisico, che ha ricevuto non poche lodi per il suo packaging rigido con lavorazione effetto pelle, a dar maggior sensazione di maneggiare un libro, e il booklet corredato da illustrazioni in bianco e nero di Iacopo Candela.
A voler marcare un perimetro, entro cui inscrivere Stack, le difficoltà non sono scarse perché i quattro trentini forgiano un disco complesso a livello musicale, e ciò non vuol lasciar sottintendere che etichettare qualunque cosa sia un bene, ma in questo caso è difficoltoso anche provarci per l’articolata e intensa commistione di generi e la discontinuità di mood dell’intero disco.
Il racconto di “Damiens”, primo brano di Stack che rimanda direttamente alle interpretazioni di Max Collini degli Offlaga, è ispirato a “Pièces originales et procédures du procès, fait à Robert-François Damiens” e ci narra la storia della condanna a morte per mezzo dello squartamento nel 1757 di Robert-François Damiens, a causa del tentato regicidio ai danni di Luigi XV di Francia. In “Mindcheck” (atto primo e secondo) e “Monossido” i Kepsah esprimono con durezza e leggere manovre intellettualistiche l’intimismo delle loro sofferenti visioni future e presenti. In “Mindcheck” battendo le strade già percosse dai Massimo Volume emergono forti tinte post-rock e post-punk, mentre in “Monossido” a farla da padrone è senza dubbio la sessione ritmica e di cui è degno di nota il testo (Non mi impietosisce la tua cartella clinica/chiedi “c’è un dottore”/Sì, sono io l’oscuro analista della tua infermità). “Oltre” è uno dei brani di punta dell’album, che ci racconta, ancora una volta recitando, la malinconia di casa e della famiglia, lo sconforto della solitudine e la distanza dagli ideali dello Stato-Impero “che non si sveglia la notte in preda ad angosciosi rimorsi” di un soldato trentino, unico superstite del suo battaglione, costretto alla guerra di posizione sull’Altopiano di Asiago, durante la Prima Guerra Mondiale (Ogni giorno, ogni ora, ogni anno spero sia l’ultimo/attendendo la resa del mio Impero/la mia patria/non sogno la vittoria/sogno invece Marta e la sua biancheria/sogno il caminetto nel soggiorno/sogno le passeggiate domenicali/sogno mio figlio che gioca sul prato delle nostre alpi/invece che le due fazioni contrapposte come carne da macello). Negli oltre sette minuti del brano i suoni sono scanditi da tamburi di marcia, forse un po’ scontati, e un malinconico sax in chiusura, a mio avviso a tratti incautamente fuori luogo, ma nel complesso il brano si lascia ascoltare e gustare nel ricco lirismo dei suoi ritmi incostanti. Sono dense le attitudini hardcore dei Kepsah, sia musicalmente che ideologicamente, e nelle selvagge composizioni di “T.N.B” e “Nuanda” emergono al meglio, sottolineando la ferocia dei giudizi nei confronti del nostro presente, a differenza del velo malinconico in cui sono immersi i brani posti sul passato della linea del tempo ideale su cui si muove il disco. Passando per la tenebrosa “Analogie”, in cui chitarra, batteria e sax sono ben amalgamati nel continuum di indignazione sprezzante del post-consumismo (Da quassù posso osservarvi/mentre comprate accessori inutili per case programmate/Ho deciso che non mi interessa/ormai mi disinteresso di tutto e scruto l’orizzonte verde fluo/ mentre una dolce melodia rinvigorisce le mie ossa raggrinzite), giungiamo a “Katabasis”. “Katabasis”, in chiusura, è la pagina di diario di un condannato a morte sulla ghigliottina, da sentire dentro il cuore oltre che nelle orecchie. Sono le parole di un uomo che fissa la sua morte, che non prega “perché nessun dio avrebbe condotto fin quassù un innocente”, e che infine risponde alla domanda universale di cosa sarà di noi dopo la vita: “la risposta è dentro il vuoto che accompagna la mia dipartita”, “il vuoto sotto la mia laringe”.
Stack è un album da interpretare mentre scorre sotto i nostri occhi, bisogna assimilarlo e continuare a scrivere la sua storia, che coincide con quella di ognuno di noi, e non lasciare che i fatti si oppongano e sovrappongano alle singole individualità. I Kepsah ogni tanto peccano di eccessivo intellettualismo, ma Stack, vale la pena di essere ascoltato.
(Simona Cannì)