Prima gli scalmanati Slipknot dello Iowa, poi i nostrani insospettabili TARM, e adesso anche questo duo, The Cyborgs, non vogliono far sapere chi sono, e allora si coprono il viso con maschere da saldatore. E fin qui tutto potrebbe andare, del resto ognuno si cerca il modo consono – chi più, chi meno – per sopperire con il “trucco” quello che altrimenti latita spaventosamente sul versante creatività. E appunto sul fattore “creatività no grazie” che i The Cyborgs battono forte e ascoltando per intero questo loro debutto anonimo, la sensazione di avere a che fare con lo spirito moscio di una “zingarata birichina” bella e buona è esponenziale.
Dicono d’essere bluesman caduti in terra da qualche reparto indefinito per mandarci al creatore, vengono dal futuro per recuperare vecchie tracce dell’original blues, si fanno chiamare “0” il chitarrista e “1” quell’altro che suona praticamente tutto e ci mandano a dire che dobbiamo salvarci la faccia e muovere il culo finchè siamo in tempo, perché se non balliamo non c’è futuro; ora ammesso e non concesso che già ci pensa il tran tran della vita quotidiana a farci ballare sulla graticola dei nostri blues da piangere, quello che non si capisce veramente di questi The Cyborg perché si siano scomodati da tanto “lontano” per portarci – più che in dote – in sopportazione un disco di dodici tracce di cui si poteva benissimo fare a meno, che se si voleva ascoltare del validissimo blues primordiale basta andare a ripescare gli “originali” tra sogni di voodoo e limacciose abluzioni virtuali nel Mississippi ed il gioco è fatto.
Un disco sotto alcuni aspetti valido, ma non imprescindibile, ovviamente ci sono delle piccole eccezioni “20th Floor”, “Highway man”, “No! No! No!” ma nell’insieme rinforzano solamente l’impressione di una monotonia assurda spalmata su una tracklist che – negli scossoni che si cercano per ridare vita a qualche generosa “novità” emergente e giovane – circola sul lettore stereo come una pena da scontare all’infinito; non stiamo a parlare della tecnica molto buona di 0 e 1, non si transige sulla concezione culturale in avanti in cui rielaborano la musica del diavolo (certo che un Samuel Katarro potrebbe insegnare qualcosa in questo senso) ma poi? Perché affacciarsi sul davanzale del debutto con roba, seppur rimischiata, trita, ritrita e digerita, con un disco che viene dal futuro, staziona ora nel presente per essere poi definitivamente scaraventato per sempre nel “dimenticatoio remoto” senza nemmeno l’opportunità di aver conosciuto chi si celava sotto?
Mi dispiace, ma questo è un giudizio definitivo, nulla di nuovo sotto il cielo, ma solo – e mi ripeto – una forte e fragorosa moscia zingarata.
(Max Sannella)