Da sotto una cascata bohemien di capelli, il musicista di Philadelphia Kurt Vile torna a descrivere nel nuovo Smoke ring for my halo gli spazi con la grazia di un poeta di cui la gente pare non essersi mai accorta, eppure stavolta le sue canzoni sono ripulite dalla patina della scontrosità, intelleggibili nella loro luce meno appannata, meno ostico nelle malinconie e più “innalzato” verso le alte vertigini dell’American folk, ma di sicuro questo disco – il quarto della carriera – come i precedenti sarà ascoltato da pochi, e meno male che questo folksinger della contemporaneità possiede il distacco e l’ironia sufficienti per sopportare una così palese ingiustizia.
Lo spirito tenace della tempra americana fa sopportare tutto, è difficile incidere la scorza dei saguari, ed è una lezione che l’artista ha imparato a memoria e la mostra in un’attenzione maggiore nella grafia compositiva e in quell’atmosfera lo-fi riverberata, noise accennato e dal gran respiro che in tutto l’arco della tracklist non concede un benché minimo spiraglio a stati d’asma o stalli a rendere.
L’artista rappresenta un caso a parte nel pur frastagliato arcipelago looner; nato da un’idea rozza e alquanto solitaria di writing ereditata soprattutto dall’irsuto Neil Young e dal field Pettyano (“Runner ups”), nello stilare le pagine di questo nuovo disco conosce di traverso le onde dell’East side Americano e impara a zig zagare tra le pozzanghere e le lascivie ambigue Reediane rispetto all’Iguana ribelle e tagliuzzato (“Puppet to the man”), prende a camminare guardando il cielo scontroso (“On tour”) o regala open chord ariosi sulle strade per Tulsa (“Smoke ring for my halo”). La tentazione di uscire dalle malie di Childish Prodigy e da tutti quei tocchi lo-fi rivolti al “west di mezzo” del suo recente passato è forte, ma anche pericolosa nell’incappare nei tornanti del pop sottocosto come poi – infatti – si verificano in “Society is my friend” e più in là nella circonferenza di “Jesus fever”.
Kurt Vile pare fare un passo indietro rispetto la sua discografia, sempre sopra una certa media, ma quello che ne sortisce è un magma sghembo, stranamente sghembo; probabilmente è anche lo scotto che un folksinger deve pagare, specialmente se sprovvisto da un proprio radicalismo politico o sociale al servizio di qualche roots qua e la, ma questa è un’altra storia, per il momento rimane un disco a mezz’aria in aspettativa di un vero vento.
(Max Sannella)