Preceduta da quattro anni di silenzio, la “grande ballata della consapevolezza” che è poi l’anima sanguigna di Daniele Silvestri ritorna a ventilare – tra il cantautorato impegnato – la sua sincera vitalità d’essere prima di tutto “contro” e subito dopo quel macinino triturante ovvietà, diktat ed esemplificazioni che trovano panacee nelle canzonette con l’araldica dell’hit; una carriera passata a cavalcare le più colorate vicissitudini della società, a difendere e descrivere gli scalini e scaloni della vita quotidiana con verve, semplicità, simpatia e diciamo pure enorme lealtà che lo ha fatto grande fin dai primi passi.
S.C.O.T.C.H è l’album ideale in questa situazione di moderno decadentismo sociale, umano e solidale, scotch come cerotto, benda, adesivo per reggere o tenere insieme alla meglio lo sfascio totale di quello che gira intorno, scotch come soluzione immediata alla precarietà di tutto ma che non risolve nulla per il futuro, un sistema raffazzonato per tenere unito insieme – nel momento – quello che non regge più per un costrutto solido di un domani; Silvestri, come dentro un circo folle, si fa dolce e acuto domatore in quindici canzoni interamente registrate in presa diretta, con la sua banda storica e un manipolo d’amiconi/ospiti che tra una traccia e l’altra lasciano un personale segno “dei tempi che corrono” e un’alito d’insolito.
Silvestri è uno di quei artisti – rari oggi – che sono apprezzati da chi la musica quella buona se la va a cercare e non si va ad affidare a quello che il convento passa, ed è tutta un’altra cosa tornare a pensare ascoltando invece che canticchiare a testa sgombra per natura; dunque un disco ad alto contenuto di cervello, a partire da “Io non mi sento Italiano” cover customerizzata del brano di Giorgio Gaber o la birichinata bypassata di Gino Paoli che mette voce in “La chatta”, trasposizione briosa dell’originale La Gatta, le voci imperiose e vissute di Camilleri e Peppe Servillo che – nella titletrack – fanno da controaltare recitante all’evocativa voce di Bunna degli Africa Unite, ancora Raiz che esplode in un rap sopra le righe al capolinea di “Precario è il mondo”, sotto l’aria frizzante di archi sul cielo degli Solis String Quartet “In un’ora soltanto” e “Ma che discorsi”, più in giù il tocco fatato di Bollani a chiudere in chiave di piano “Questo paese”.
Sarò pure tempo di revival, però prima di arrivare su disco il cantautore romano ce la messa tutta per raggiungere il suono e le parole giuste per descrivere – nella fattispecie – il sapore agrodolce di una forza bella come l’onestà, una poesia su carta paglia che è già diventata un classico.
“…che salpino le navi/ si levino le ancore/ si gonfino le vele/ verranno giorni limpidi e dobbiamo approfittare/ di questi venti gelidi del greco e del maestrale…” (“Le navi”).
Un disco e un sentore di libertà che provoca all’infinito.
(Max Sannella)