Emmylou Harris è sempre stata una donna semplice, anche se poteva e può tuttora atteggiarsi a regina ed insegnare molto a tante dolly girls che banchettano alla tavola del country folk americano, ed il tempo con lei non si è mostrato tiranno, sempre bella e fisica quando c’è da disegnare linee, sogni e traiettorie visionarie sullo skyline del west.
Un’artista che ha modificato e contribuito ad influenzare il mondo rock, cantando con migliaia d’artisti, tra i tanti Costello, Dylan, Knopfler, Springsteen, Neil Young, Dolly Patton, ma la sua anima è rimasta impigliata all’amico/uomo della sua vita, Gram Parson, l’eroe dei Birds che più di tutti l’ha amata; Hard Bargain è il disco che scivola tra il ricordo di quest’uomo (“The road”) e la rivincita umana e personale dell’artista americana, infatti la Harris ha sempre cantato roba d’altri, e ora mette la sua penna in primo piano e regala al mondo intero tredici brani che spaccano come un mela il disco in due parti, nella prima l’intimità soffice, nella seconda la ripresa dello spirito civile e sociale.
Tra Nashville e una moderna Alabama, ma con nelle tasche l’aria poetica Withmaniana, Hard Bargain è un viaggio appeso sul filo delle esperienze e dall’incedere brioso a metà che capacita la meraviglia di una donna – prima di tutto – che non si vuole arrendere all’equivoco delle “regole” che vogliono annacquate la poetica per tenere alta la temperatura del fashion, ma che stilla energia e buon senso per intensificare valori, intuizioni sulle gocce di una malinconica dolcezza; registrate con due soli musicisti Jan Joyce alle percussioni e Giles Reaves tastiere, il ruolo di queste tracce è quello di proiettare i sogni oltre i confini, di godere del fresco di melodie senza tempo e gratificare lo spirito, non ha quel sapore provocatorio del disincanto, ma una sospensione semplice come l’aria che si respira “da quelle parti” oltreoceano.
Dicevamo un disco di grand’amicizia e amore per l’amico scomparso, undici canzoni proprie e due cover “Hard bargain” di Ron Sexsmith e “Cross youself” di Jan Joyce, poi ballate e guizzi rock che danno un’ascolto pacato e rimembrante, i senzatetto di New Orleans del dopo Kathrina (“New Orleans”), i poveri nel mondo (“Home sweet home”), il razzismo (“My name is Emmett Till”) o il no alle guerre urlato teneramente con la penna della chitarra acustica nella stupenda “The ship on his arm”; niente a che fare con quei dischi che sconvolgono le coscienze, nessuna importanza a proclami e tatticismi contro questo o contro l’altro, solo distillati d’amore e umanità dietro una chitarra acustica e una forza da riscoprire, quella di una donna e artista che la leggenda contende alla contemporaneità vigente. Ottimo per quando si è intensi dentro.
(Max Sannella)
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