Ci sono album il cui giudizio deve andare per forza oltre una valutazione puramente tecnica. Non nel senso che la qualità artistica del prodotto debba essere posta in secondo piano, quanto per una serie di fattori (che potremmo anche definire “morali”) che stanno imprescindibilmente alla base della sua realizzazione. È il caso dei Belladonna e della loro ultima mastodontica fatica And there was light.
Nel novembre 2010 la band romana, decisamente più celebre oltreoceano che nella madrepatria, si è infatti chiusa negli Stagg Street Studios di Los Angels (le cui pareti hanno visto passare nomi tipo Patti Smith, Brian Wilson, CSNY e Tom Waits) per registrare il suo terzo lavoro in studio “come se si fosse nel 1973”. Questo cosa significa nel concreto? Incidere i pezzi completamente dal vivo, senza click track e guardandosi fissi negli occhi. A raccogliere la sfida è stato quel Mike Tacci già engineer del “Black album” di metallica memoria. Ma il diabolico piano non finisce qui. In un’epoca in cui i dischi sono ormai pezzi d’antiquariato per feticisti morbosamente attratti da booklet opulenti e testi autografi, i Belladonna decidono di sfornare un album di venti tracce la cui durata complessiva supera i sessanta minuti. Follia pura. Anche perché la band capitanata da Luana Caraffa e Dani Macchi ha la capacità di essere fautrice di un sound totalmente al di fuori delle mode attuali, ma proprio per questo atemporale ed inclassificabile. Indipendente dall’indie insomma. Nessuna label, né major né altro, ma l’autoproduzione ortodossa come unica via per un’integrità artistica e morale. Fuori da qualsiasi logica commerciale, che sia essa mainstream o underground. Perché comunque sempre di mercato si tratta. Ed eccoci quindi davanti ad un disco che prima di tutto è una dichiarazione etica della band. Ma sarebbe un errore clamoroso limitarsi a queste considerazioni (e molti recensori di “In Rainbows” ne sanno qualcosa). “And there was light” è un album maestoso, con la potenza dei grandi classici, proprio per il suo essere assolutamente un outsider nell’attuale panorama musicale. Onirico ed oscuro, un mix tormentato di blues, hard-rock e psichedelica, il tutto avvolto in una affascinante atmosfera sapientemente vintage. Certo, sarebbe sbagliato per amore della musica non evidenziarne anche le pecche. Seppur nella tracklist non si registrino brutti pezzi, è altrettanto vero che venti tracce sembrano onestamente troppe e appesantiscono a tratti la fluidità del disco (ma questo può comunque far parte di una consapevole scelta artistica, quando si registrano opere così imponenti). Inoltre a tratti le melodie sembrano non riuscire nel faticoso tentativo di discostarsi dal già sentito, specialmente quando richiamano alla mente un certo tipo di rock al femminile anni Novanta. Per fortuna i casi sono rari, perché per il resto Luana Caraffa si conferma una vocalist dalla caratura assolutamente internazione, capace di reggere sulle sue spalle un album di tale spessore e dando il meglio di sé nei brani più esoterici e romanticamente oscuri.
In conclusione, potreste anche non essere fan del sound dei Belladonna, perché a volte troppo ricco di pathos o troppo legato a stilemi rock del passato, ma davanti ad un disco così, se amate la musica, è d’obbligo che vi togliate il cappello e gettiate il vostro cuore di pietra da indie snob tra le fiamme dell’Inferno. Perché dai Belladonna c’è solo da imparare.
(Federico Anelli)