É uscito con questo caldo afoso di fine Giugno per portarci refrigerio, o almeno una ghiacciata espressionista; ed è proprio questa si mette in bella mostra subito in quanto il modo “d’essere” – in questa pubblicazione – è totalmente alieno da come siamo abituati ad ascoltarli, il rock o venature di esso prendono il sopravvento e recupera strada e spazi.
A Better Man degli One Dimensional Man, logos in cui coabitano Pierpaolo Capovilla e Giulio Ragno Favero con Luca Bottigliero alle pelli e una fitta lanugine d’artisti stranieri e locali che fanno sound aggiunto quali Enrico Gabrielli dei Calibro 35, Gionata Mirai de Il Teatro degli Orrori, Francesco D’Abbraccio degli Aucan, Eugene Robinson degli Oxbow, Justin Trosper degli Unwound, Sir Bob Cornelius Rifo dei The Bloody Beettroots, Rossmore James Campbel (autore di tutti i testi), Jacopo Battaglia degli ZU e Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours, va a diventare un disco eloquente che vale più di mille spiegazioni, una personalità nuova e liberatoria che svela le proprie intenzioni nel momento esatto in cui lo si mette alla prova “imperturbabile” del lettore. Ma non tutto poi funziona bene.
Mancano dalle scene discografiche vere da sette anni, e non se la sono proprio sentita di riapparire con le solite trasposizioni brucianti della loro appartenenza, si sono rivoluzionati, un colpo di spugna perfetto per farci arrivare il “nuovo disco dove dentro c’è tutta la benevola scelleratezza di un disco imperfetto”, quasi il primo compitino di studio per farsi conoscere al pubblico, che va bene per così dire d’imprinting, ma che si svuota di pathos e di quell’inquietante lusso di rimanere a lungo nella testa e nei capitoli mnemonici delle forti emozioni; eppure con tutta questa bella masnada di musicisti, pittori e sognatori amperici, l’inverno precoce del nostro scontento si sarebbe dovuto tenere alla larga, ma evidentemente le mega scapocciate Copernichiane non abitano le nostre longitudini sonore e allora – meditabondi ed impensieriti – ci accingiamo a rovistare tra questi suoni che dovrebbero fare “l’uomo felice”.
Nervous d’intrecci architettonici di chitarre elettriche che schermagliano tensioni e nervi scoperti per ospitare l’aura psicho-mefistofelica ed evocativa di Nick Cave (“Fly”), espanso nei giri ipnotici riverberati (“This crazy”, “This hungry beast”) spiattato di batteria fino a sfogarsi a sangue (“The wine that I drink”), con la voce di Capovilla che si erge a crooner psichedelico in un teatrino corale destabilizzante e seghettato da violini acidi (“Ever sad”) reiterato poi con effetti d’armonica anche in “This strange disease” o con la principale causa di questo nuovo mondo ODM – i tesi tasti di pianoforte e il ghirigori elettrico di una chitarra esaurita di nervi (“A Better man”), il disco più lo si sente e più avanza a grandi falcate la convinzione che quell’aura di Cave non sia messa lì per caso o che sia un passaggio casuale tra un inferno da scontare o un limbo da vincere, ma che sia la battaglia che gli ODM fanno a se stessi, non come odio verso un qualcosa che si trascini senza particolari direzioni, ma come contorsione trafficata di una vita nuova, di un nuovo disco e di un nuovo suono che vuole rinascere dal buio profondo, ma quello che poi s’intravede come “luce nuova” non è materia che gioca a loro vantaggio.
Dopo tanti anni si poteva fare di più.
(Max Sannella)