Il progetto Brothers in law nasce nel 2010 a Pesaro, città in cui sembra fiorire una generazione di gruppi decisamente interessante: Be Forest (consanguinei dei BIL, ndr), General Decay, Death in Plains e Soviet Soviet, per volerne citare alcuni. In molti di loro spicca una certa attitudine post-punk/noise, accompagnata da una infatuazione profonda per lo stile anglosassone, non fosse altro per la scelta del cantato inglese e per i modelli di riferimento (più o meno intuibili) da cui traggono ispirazione. La città marchigiana, quindi, non rimane che una collocazione geografica assolutamente casuale, così stretta o sin troppo provinciale da indurre questi ragazzi ad emigrare (idealmente) dall’Italia per inseguire il loro sogno britannico.
Dico questo perché nel caso specifico dei Brothers in law quel sogno (precisamente scozzese) è sin troppo evidente: a fare da sfondo ai cinque brani che compongono l’Ep, infatti, c’è quel forte richiamo ai Jesus and Mary Chain, riconoscibile dal cantato, dalle chitarre sature, dall’enfasi di echi ed effetti che ne caratterizzano il sound. Insomma, tutte intuizioni dalle quali uscì negli anni ’80 il personalissimo marchio di fabbrica dei fratelli Reid. Un modello decisamente suggestivo da cui trarre ispirazione, salvo, però, non incorrere nel rischio di restarne stregati o intrappolati.
Eppure, se liberato da quest’ingombrante ombra derivativa, il progetto ha tutte le carte in regola per diventare qualcosa di molto più personale ed interessante, perché composto da un duo di giovani ragazzi, a cui non manca, di certo, la qualità per esprimersi in maniera differente. “Crystal birds”, “Butter bricks” e la conclusiva “T.T.T.” denotano già una certa raffinatezza compositiva, in cui percussioni fredde e chitarre cariche di eco si incastrano perfettamente con linee vocali dolci, tracciando scenari onirici e distorti, figli di un’estetica minimalista ma gonfia di enfasi. In mezzo, invece, troviamo “Like a good dream”, brano caratterizzato da una ritmica martellante e ripetitiva che riporta alla mente il rock acido e psichedelico dei lontani Velvet Underground e “Cycle” dall’attitudine più surf rock.
Ho un forte dubbio sul fatto che Pesaro sia ancora o meno una città italiana. Magari c’è un accordo segreto per farla diventare al più presto una colonia britannica o magari lì è stato esiliato un santone british rock, eletto guru tutelare delle nuove leve. Sta di fatto che varrebbe la pena andarci a fare un salto. La scena è vivissima e i Brothers in law, in perfetto stile, seguono l’onda, com’è giusto che sia. Se avranno la voglia di azzardare e personalizzare la formula sapranno anche loro ritagliarsi il meritato spazio.
(S. de Traumnovelle)