Tornano i Kaiser Chiefs, a tre anni da quel mezzo passo falso di Off With Their Heads, e forse tornano proprio per riscattarsi i cinque di Leeds, che stavolta decidono di non regolarsi e tirare fuori dal cilindro ben venti pezzi, creando una specie di puzzle, dal momento che i fan che acquistano il cd on line possono “assemblarselo” scegliendo dieci pezzi su venti per la copia digitale. Scelta probabilmente poco selfish, e che stupisce, se si pensa che è la stessa band a proporre di comprare un disco a metà.
Come mai? Che anche The Future is Medieval sia un disco orribile? L’inizio, con “Little Shocks”, primo singolo, fa ben sperare, il pezzo ripropone alcune sonorità tipiche più dei Battles che dei Kaiser Chiefs, però nel complesso il loro trademark è riconoscibilissimo, e non è difficile immaginare che questa sarà una delle canzoni che più infiammerà i live. Una nota di lo-fi che sparisce non appena la chitarra acustica di “When all is quiet” irrompe, con la sua aria scanzonata ed i coretti à la Beatles. Ecco, sono convinto che i Beatles ed i Coldplay siano capaci di rovinare più gruppi di quanti non ne facciano emergere. “Out of focus” riporta il lotto sul terreno originario, quello più congeniale ai Kaiser, le ballatone spruzzate di synth e accordoni gonfi, con tanto di assolo di tastiere, e la dose è rincarata da “Starts with nothing”, ballata che nonostante l’apparente lentezza può ambire a diventare uno dei pezzi più famosi del quintetto. “Child of the Jago” viene fuori direttamente dagli anni più bui della tradizione inglese, con le voci in overdub, la batteria ad inventarsi i controtempi e la tastiera acida del tutto somigliante all’effetto “Ghost” sulle Bontempi che circolavano a metà degli anni ’90. “Back in December” sembra uscire dall’ennesima raccolta degli Oasis, quasi come se anche i Chiefs avessero deciso di seguire la moda che ha già contagiato Strokes, Arctic Monkeys ed altri gruppi: fare i seri, con album lenti, non riuscirci, e produrre un disco da cani. Nella peggiore delle ipotesi la colpa sarà di Mark Ronson ed Eliot James, artefici della produzione di questo disco. Quasi come ad aver pronunciato la parola magica arriva “Problem Solved”, energica, carica, distorta. In questo disco c’è un po’ di tutto, sarebbe limitante ridurlo ad un solo genere, anche perché poi ti trovi di fronte a pezzi come “If you will have me”, registrato con una chitarra acustica anche abbastanza scrausa (scommetto Gretsch, quella serie con i disegnini del Far West, le chitarre più brutte mai create) e una coppia d’archi, tesa e toccante, a rilassare gli animi prima di “Can’t mind my own business”, sulla quale resto sorpreso, non essendomi mai accorto della somiglianza tra la voce di Ricky Wilson e quella di Dave Gahan. “Cousin in the Bronx” merita una citazione tra i pezzi migliori, con un po’ di Vampire Weekend a dettare i tempi, slide hawaiani, sequencer irritantissimi che entrano in testa al primo ascolto, ed una melodia ficcante, come ai tempi di “Everyday I love you less and less”. Lasciandoci la prima metà del disco alle spalle, i giochi riaprono con “Saying Something”, un pezzo che avrebbero francamente potuto evitare, insipido e che non si capisce bene dove voglia andare a parare. “Coming up for air”, nonostante i cinqueminutiemezzo di durata, scivola abbastanza agevolmente, grazie ad una struttura che definire catchy è davvero offendere. Dopo “Heard It Break”, capolavoro synthpop anni ’80, mi sento completamente perso. Ero convinto che i Chiefs fossero una band indie-rock, invece mi ritrovo di fronte ad una compilation di quarant’anni di storia, dai Beatles ai Depeche Mode fino ai Blur e gli Strokes, non c’è un periodo storico-musicale britannico che non sia compreso in questo album, e la conferma arriva con “Fly on the wall”, che esplode nel finale, tra organi e coretti in bilico tra prog e sceneggiata napoletana, di sicuro uno degli outro migliori che abbia mai ascoltato. “Things Change” avrebbe potuto essere il titolo dell’album, le cose cambiano, in continuazione. Qui siamo nel pieno del periodo tra Songs of Faith and Devotion ed Ultra, quando i Depeche sono stati costretti ad abbandonare un po’ di tematiche oscure per evitare di ricominciare a drogarsi. Uguale uguale. Attitudine che prosegue con “I dare you”, anche questo da annoverare tra i pezzi consigliati per il nervosismo e quel senso di inquietudine che inevitabilmente fa nascere nei confronti di chi ascolta. “My place is here” riporta ancora alla metropolitana di Londra, linea nera, fermata Leicester Square, dove l’alienazione arriva a livelli di campagna, pur abitando nella Capitale. Siamo quasi alla fine, e “Dead or in serious trouble” nasconde – dietro una struttura musicale pesantissima – una voglia di tornare a suonare senza pensieri. E infatti si nota come i pezzi meno ragionati siano anche quelli più istintivi e migliori, tutto concentrato in un album che è più che altro una vera e propria compilation, senza filo conduttore o linee-guida. Un accozzaglia di pezzi, alcuni molto riusciti, altri molto meno, che probabilmente sono un ponte tra i “vecchi” Kaiser Chiefs e quelli a venire, certo è che possono essere solo ipotesi, domani potremmo svegliarci tanto con un gruppo che prende una strada nuova, quanto con l’ennesimo clone dei Fab Four.
(Mario Mucedola)