Blues da piangere, pozzanghere d’alcol, bassifondi malfamati, latrine dalle porte a swing, tutto il vademecum morfologico sbavato di Capossela, Buscaglione, il Tom Waits dei fantasmi del Baton Rouge e tanto altro nella fantasia adulterata del cantautore toscano Matteo Malquori, qui con il nuovo Il gioco analogo, dieci deliri in equilibrio tra storie bastarde e bastardi surrealismi che languidano e si affinano in un cerimoniale di storie e storiacce colorate e sbandate.
Ad essere fessi severissimi, dopo già tre secondi di stereo il naso si storcerebbe da solo e la critica musicale quella della penna rossa andrebbe in delirio pur di storpiare la fatica del nostro cantautore, perché onestamente di queste “verve fradice di fegato e tramortite dalla vita” non se ne può più, è uno schema stilistico da plagio senza ritegno ma – anche se difficile – si mettono da parte pregiudizi e si ascolta il tutto senza pensare – ancor più difficile – ai mostri ispiratori, si scoprirà che poi in fondo tutti – dall’A alla Zeta – sono in preda alla sfrontatezza dentro lo spirito sano della jam infinita. Ed è un rincorrersi di personaggi strampalati, ultimi o mediani della vita che vogliono alzare la testa almeno una volta nella loro esistenza e vengono messi in una “lista di traguardo” che va dall’uno al dieci, come nel gioco infantile della “Campana”, e come in tutti gli album “tribolati” dei racounteurs stravaganti queste “storie degli uomini del basso” vengono fatti nuotare in un mare di jazzly, blues catarrali, bosse nove tremolanti e trombe in sordina, pianoforti scassati e voci condizionate dalla nicotina e dal tannino, il perfetto soundtrack di fallimenti e rinascite, dei vantaggi e della sfiga di non essere nulla.
L’artista Malquori non vuole essere una copia “de noantri” del Waits della perdizione, anzi, chi tra i duri e puri della musica farà lo sforzo di immettere la testa in questo disco, ammetterà sicuramente di essere stato frettoloso nel giudizio e nel deprezzamento, perché Malquori ha molta personalità customerizzata, solamente che la sovrappone ad altre dello stesso stampo e ci vuole moltissima attenzione per estrapolarla intatta dalla guerra dei suoni che l’intera pattuglia stilistica o del genere propone da sempre.
Forse Malquori non ha fatto ancora in tempo a diventare beniamino del mondo indie allargato, ma se questa benedetta massa si sedesse su bordo dopo aver respirato l’esotismo blislacco de “Una volta da piccolo”, il chief-blues all’armonica salivata “Monedita”, il canto soffocato e mefistofelico del clochard “Alcool e cartoni”, il rock da highway “Chanel” o il ritmo deviato di un sausalito “Sul balcone”, forse allora quella naturalezza di piccole cose, della veemenza dei testi che bussa forte e quello stravergolamento di prassi, con buona pace delle “penne rosse” spesso invidiose e zitelle, gli darebbe la botta in testa ed un effetto assicurato, come un gioco delle parti, ma dalla linea del capogiro.
(Max Sannella)