Pete & the Pirates la solita tiritera skunk inglese, fluida e sommessa che sta all’esatto opposto della “personaggistica” comunque sopra le righe? In poche parole, un gruppetto sui generis come tanti? Proprio quando viene spontaneo averne abbastanza di questi epiteti criticoni, altrettanto spontaneo viene fermarsi e far rapporti parentali con quel sentore illuminante in tempi non sospetti – sotto l’egida Tap Tap – dell’album “Lanzafame”, e da allora la svolta di Thomas Sanders (Pete) che arruola una nuova ciurma i (The Pirates) in quel di Reading e, dopo due album frizzanti ma abiurati dalla critica, torna in pista in questo 2011 con One Thousand Pictures ed è il disco della differenza, della dignitosa inversione di marcia che si fa sentire in tutta la sua inafferrabile stimolazione.
Se prima la battuta cardiaca della loro musica si allineava su fibrillazioni Arcade Fire e il bagnasciuga di Beach Boys spumosi, il nuovo investimento sonico della band inglese è pressoché come un ritorno al passato, tinteggiato da folgorazioni grigie anni 80, con alcuni barlumi hook-pop azzeccatissimi di stampo indie “Cold black Kitty”, “Come to the bar” sbarazzina e uggiosa. Con l’incarnazione ispirativa che “comunica” con Flaming Lips, Mistery Jets, pixell di The Coral, ma con i Futureheads in cima a tutti i pensieri, Pete & The Pirates sono anche duttili nel procurare scosse elettriche sinthetiche e scalene proprie di quegli anni 80 plastificati “Winter”, “Shotgun”, “Reprise” ed il risultato, sebbene non si vogliano trovare voglie di trasgressione a tutti i costi, va a piegarsi in un qualcosa di piuttosto convenzionale, in cui la voglia di stupire è rimasta nelle vecchie produzioni.
Come un richiamo sordo ai richiami dell’attualità, oppure il ponderare di un gruppo che è diventato adulto, il registrato si muove tra alti e bassi, tirato nel rock perennemente imbronciato “Blood gets thin”, “Thing that go bump”, emblematico nel romantico cartonato “Washing powder” e con punte alte d’orgoglio felice “Half moon street” bella traccia in cui troviamo a danzare mano nella mano Clap Your Hands Say Yeah con un David Byrne allucinatamente beato.
Ovvio il loro carattere si è un po’ spento, preferendo un tempaggio più acuto e meditabondo, rimangono melodie ed eccezioni che vanno metabolizzate in più riprese, estrapolandole da contesti e schemi, ma sarebbe meglio che siate voi, mentre le ascoltate, a dimenticarvi della vostra vita piena di schemi, poi tutto sarà come un compromesso a mezz’aria, proprio come pirati senza arrembaggi e tesori da nascondere. Un voto di sufficienza però in fondo ci sta.
(Max Sannella)