Ci sono voluti quattro anni ai Battles per dare un seguito all’acclamato esordio Mirrored del 2007. Quattro anni durante i quali il gruppo ha dovuto ripensare se stesso, ridefinire la propria identità in un triangolo, ché il quadrato s’era smontato nel 2009, quando Tyondai Braxton decise di lasciare il gruppo, sfiancato dalla frenetica attività live della band. A quel tempo Glass Drop era già pronto, scritto, arrangiato, in gran parte registrato. Ma Ian Williams, Dave Konopka e John Stanier si trovavano tra le mani un album che non li rappresentava più, di cui non erano del tutto soddisfatti, forse lo sentivano prematuramente morto. Decisi a non indulgere allo sconforto, i tre sono tornati in studio per tenere in vita la creatura Battles, elaborare il lutto ed andate avanti come gruppo, tutti per uno e uno per tutti, Braxton solo un inciampo, uno snodo narrativo nella trama ancora in svolgimento. I Battles stessi hanno chiesto al pubblico di concentrarsi sulla musica e lasciar perdere il gossip.
E così sia. Abbiamo ascoltato l’album e Glass Drop è tutto ciò che era Mirrored. No, non c’è un’altra “Atlas” qui. Però ci sono ancora gli ingredienti che facevano di Mirrored un grande album di math-rock. Inventiva, precisione balistica nelle trame ritmiche, eclettismo, eterni climax, progressioni matrioska, suoni e suonetti ameni, fraseggi mai scontati, un po’ di Caraibi e un po’ di Natale, onanismo e altruismo, ballabilità spezzata, assalti frontali e ai fianchi e guerra di trincea. In più, rispetto a Mirrored, ci sono divertimento e tanta emozione, una vitalità col cuore in gola che non t’aspetteresti da siffatti algebrici spartiti: questi ragazzi si sorridono e ti sorridono mentre suonano. A Glass Drop manca solo l’effetto sorpresa, ma quello te lo giochi poche volte nella vita. Non che sia un problema: se riesci a far sembrare arrapante la voce di Kazu Makino in “Sweetie & Shag” e ad ammodernare Gary Numan in “My Machine”, dove i Tubeway Army brindano coi Fugazi, beh, nascondi ancora molti conigli bianchi nel tuo cappello. La pletora di featuring vocali sopperisce all’assenza di un cantante e, invece del sapore di ripiego posticcio, regala all’album maggiore varietà, laddove Braxton col suo vocoder alla lunga poteva risultare indigesto.
Alla facciazza di Braxton, il trio meraviglia Williams-Konopka-Stanier ha sfornato il degno gemello – scusate, seguito – di Mirrored. Gemello eterozigote, ovvio, quello dei due caciarone e monello, quello che segna il record mondiale di Guitar Hero ma si annoia a Risiko, mentre l’altro fratello resterà negli annali come l’inventore di un prototipo prodigioso che non ha trovato i finanziamenti per la produzione seriale.
(Francesco Morstabilini)