Himalaya, primo full length della band bergamasca Il Torquemada, può considerarsi un vero e proprio concept album. La metafora della scalata verso alcune delle vette più alte al mondo rappresenta l’immaginario entro quale leggere i tredici brani che compongono il lavoro. L’impresa si rivelerà compiuta, nonostante affiorino lungo il percorso momenti di difficoltà e cali di tensione. Ma andiamo per gradi.
Col brano d’apertura “Himalaya” si osserva il gigante montuoso dal basso, immersi in un’atmosfera dolce e innevata: una linea vocale malinconica ne fa da cornice, sorretta e ben interpretata da chitarre acustiche e dal violino. L’inizio però non deve trarre in inganno. Con il successivo “K1” parte la vera scalata ed il trio tira fuori tutta la grinta in un’esplosione stoner, dove le chitarre distorte e l’ingresso della batteria ridisegnano l’atmosfera, che si manterrà pressoché su questi toni aggressivi e duri. Spesso la forma canzone canonica (strofa/ritornello) ne esce fuori completamente destrutturata (“Lo scatto”, “A volte”) , facendo rientrare la band in quella concezione alternative di gruppi come Jesus Lizard o Il Teatro degli orrori (per mantenere un paragone italiano). Episodi apprezzabili e riuscitissimi come la cadenzata “La litania” o “Fibonacci” si alternano a momenti meno convincenti come “Spot” (non fosse altro per i contenuti deboli) o “Il baricentro”, la cui interpretazione in chiave folk punk sembra uscire fuori dal sound generale dell’album. Le tematiche affrontano problematiche attuali come in “De propaganda” col quale si celebra il funerale dell’opinione (intesa come elemento vitale di criticità) nell’era della banalizzazione e dell’effimero: il messaggio c’è: l’opinione è morta / l’uomo immagine ha la sua proposta. La denuncia sociale in “A volte” è schietta e sottolinea quel mal costume ormai divenuto una questione annosa: l’indifferenza è ormai un pregio nel silenzio / e la nazione comunque avanza / e l’omertà, lupara bianca / sta divorando ogni speranza. In fondo al lavoro troviamo “Margaret” e “K2” che nonostante siano ottimi brani, rischiano di risultare autoreferenziali, addentrandosi sin troppo in dinamiche strumentali di matrice progressive. Si arriva pertanto su in cima con l’ultimo brano un po’ stanchi e col fiato corto. La conclusiva “Ayalamih” recupera il motivo del brano d’apertura “Himalaya”, evidenziando come la scalata abbia totalmente ribaltato la morbida atmosfera di partenza (rileggere il titolo per credere), celebrando così la conquista della vetta.
Di certo non è il coraggio che manca a Il Torquemada: il trio affronta la sfida del concept album, segnando una svolta importante, quella dell’uso della lingua italiana. Il risultato è comunque degno di nota. Idee e qualità non mancano, il sound è corposo e maturo. Solo qualche accorgimento strutturale li divide per ora da una consacrazione a pieni voti.
(S. de Traumnovelle)