É innegabile, siamo dalle parti alte, agli attici della musica e delle arcadie degli immensi sospiri americani; e anche se può sembrare solamente un buon compito di un altrettanto eccelso allievo di coetaneità parallela a Young, Mitchell, Cohen, Bruce Cockburn con “Small Source Of Comfort” smentisce tutti e torna in cattedra a fare scuola, torna sulla strada col suo inossidabile passo, non una virgola fuori posto, dritto sulle coordinate melting-folk esuberanti e melanconiche, una sintassi di riferimenti che fanno humus prezioso per ettari di terreni musicali.
In tanti si spellano in giudizi sugli anni migliori dell’artista americano – sempre ricondotti verso i 70/90 – ma è un disequilibrio incasellato nel fervore estremista, Cockburn è vero che ora si ferma dalle sue insaziabili indagazioni sui pezzi di un mondo eternamente in bilico, è reale che il suo modo di suonare la vita si è accomodato nel “domestico”, ma è fuori discussione la sostanza di queste quattordici tracce che è inalterata di fronte gli anni, una rinnovata forza ieratica che ti fa sprofondare ogni volta nei pillow dell’anima. Brani molto corti, melodie che si stampano subito nella memoria, tracce su cui la chitarra acustica prevale sull’elettrica, cinque strumentali e quell’aria vissuta di chi cerca nella solitudine l’origine di se stesso, la matrice dominante della sua genesi e della sua incontenibile voglia di raccontare; un’interpretazione veritiera – come sempre – che si fa poesia e viceversa, sempre sul filo d’equilibrista che fa intendere concretezze e volatilità, anche grazie al contributo vocale di Annabelle Chvosteck e del violino sognante di Jenny Scheinmann. In un susseguirsi di gioia e riflessioni Cockburn accumula, in pochi giri, un’estetica variegata della sue teorie musicali, un’associazione di cromatismi che vanno dal folk cavalcante “The Iris of The World”, alla ballad field e sarcastica “Call Me Rose” con una calligrafia che prende in giro Nixon che si trasforma in donna, colorazioni che attaccano la spina elettrica al bluesy “Five Fifty-One”, poi la staccano sul macramè di un fingerpicking esaltante “Bohemian 3-Step” per arrivare ad “aree aeree” sulle corde di violino “Lois On The Autobahn” e quelle acustiche “Ancestors”, soliloquio di dita su lidi nordici.
Un disco d’aria e terra, sempre sulla tela degli accordi e nemico del cinismo dissimulato, ed anche un “concerto” intenso che all’origine doveva suonare elettrico, ma che forse il destino, il fato o la non occasione lo ha trasformato in un approfondimento di sensazioni dolci; e questo viene a nostro vantaggio, perché ogni tanto lo “staccare la spina” da parte di tanti artisti, per noi che viviamo virtualmente tra distorsori e fuzz, è un modo moltiplicativo di valutarli ulteriormente dal di dentro nonché amarli fino alle ossa.
(Max Sannella)