È stato un mese lunghissimo quello trascorso tra l’acquisto del biglietto e il concerto degli Interpol. All’Atlantico Live questa sera approda il gruppo newyorkese rivelazione dell’ultimo decennio. L’attesa è tanta, ed è sottolineata da una fiumana di gente presente nel locale, gli organizzatori parlano di 3500 biglietti venduti, e a guardarsi intorno, c’è da considerare che probabilmente hanno ragione. Quando si spengono le luci, l’Atlantico esplode in un grido, che si rafforza ancora di più quando Sam Fogarino prima, e Daniel Kessler, come sempre in giacca e cravatta, salgono sul palco. Paul Banks entra per ultimo, come da consuetudine, con la Les Paul Black Beauty di battaglia. Chi si aspettava un inizio soft viene accontentato, con “Success”, che apre l’ultimo disco degli Interpol, apre le danze ed i polmoni del pubblico, che nonostante l’acustica pessima, comincia a cantare. Si prosegue tirati, con “Say hello to the angels” e subito dopo “NARC”, al termine della quale Paul Banks saluta il pubblico, oltre a prolungarsi sulle solite cose, che Roma è una “uanderful siti” e che “fud is veri gud”. Cambio di chitarra, e subito “Hands away”, dal primo album Turn on the bright lights, del 2002. Giusto cinque minuti di “dolcezza” e si ricomincia carichi con “Barricade”, che fa cantare tutti ma proprio tutti, e “Rest my chemistry”, sulla cui bellezza non credo ci sia molto da dire, so solo che mi sento un bimbo aggrappato alla transenna con gli occhi a cuoricino, come i manga giapponesi. Solo loro sono capaci di creare atmosfere così forti senza sfociare nel banale o nel rock’n’roll a tutti i costi. È come se avessero fatto un patto col diavolo per fare sì musica deprimente, ma scritta da Dio. “The new” è una mezza sorpresa, di certo non ce la si aspettava, a giudicare anche dal boato che scatenano le prime note di basso. Ma ci pensa subito “C’mere” a riportare i tempi veloci, dopo la calma piatta del prezzo precedente. È un concerto che non conosce tregua o soste, i tre, coadiuvati da un bassista allampanato e da un tastierista dal volume così basso che
probabilmente è usato solo per riempire il palco, procedono compatti, granitici, meravigliosi. Sono uno spettacolo per gli occhi e per le orecchie, oltre al fatto che l’impianto luci è gestito magistralmente dal loro tecnico, di sicuro non uno alle prime armi come si usa fare in Italia, che ti ritrovi ai concerti con i faretti pro-epilessia puntati negli occhi. Il concerto procede alternando pezzi più forti a pezzi più calmi, come adesso con “Lights”, che dal vivo perde qualcosa, mentre quasi come ci fosse una legge del contrappasso, “Summer Well”, altro pezzo tratto da “Interpol”, l’ultimo album, che su disco non impressiona, dal vivo diventa imprescindibile. E si ritorna indietro nel tempo, al primo disco, con “NYC” ed i suoi accordoni malinconici, ma gli Interpol che più ci piacciono sono quelli che fanno muovere il culo, e allora via con “The Heinrich Maneuver”, da Our love to admire, che segnò il passaggio degli Interpol dalla Matador alla Capitol, con le conseguenti innumerevoli critiche sul fatto che si fossero venduti e insomma, le solite cose. L’umore del pubblico alle prime note del pezzo contraddirà malamente i criticoni. Con “Memory serves” si caricano in attesa di “Slow hands” che chiude la prima parte di concerto. Salutano, e dove cazzo andate? Tornano infatti dopo pochi minuti con “Specialist”, pezzo del loro primo EP, incluso anche come Bonus Track nell’edizione australiana, giapponese e messicana del primo disco. Dappertutto, tranne che in Italia quindi. Ma c’è ancora tempo per “Evil”, sulla quale la voce di Paul Banks comincia a scricchiolare, ma continua imperterrito con “Not Even Jail”, che fa da gregario alla volata finale di “Obstacle 1”, che chiude tra gli applausi il concerto. Indubbiamente uno dei live più belli della stagione, carico e tirato, dolce e rabbioso, che insomma riflette appieno il carattere e la musica di questi fantastici ragazzi, a dimostrazione che non tutte le americanate sono patetiche.
(Mario Mucedola)
Foto: Luca Carlino