Centocelle di sabato sera non è certo uno dei centri nevralgici della movida capitolina. Centocelle, con il suo avveniristico (per gli anni ’50) piano regolatore fatto di strade squadrate, è il quartiere residenziale per eccellenza. Qui crebbe Claudio Baglioni, il quale qualche anno fa cantò dal terrazzo della sua vecchia casa, come a voler emulare i Beatles che nel 1969 si esibirono per l’ultima volta sul tetto della Apple Records. Un posto un po’ fuori mano, invero, che non attira gli hipster , i quali notoriamente si spostano soltanto a piedi, in mandrie, inebriati dall’alto tasso di spritz nel sangue. È un peccato, perché sabato 14 maggio si è tenuto un evento fuori dall’ordinario, quasi quanto il suddetto show baglioniano, che probabilmente avrebbe fatto gola a un pubblico del genere ma che nel frattempo però veniva distratto da un altro evento, la “notte bianca dei musei” istituita dal nostro primo cittadino di cro-magnon. Senza considerare, evidentemente, che mentre i Musei Capitolini e la Galleria Nazionale d’Arte Moderna continueranno placidamente la loro esistenza, la convergenza spazio-temporale che porta il tour stachanovista dei bolognesi Lo Stato Sociale in un minuscolo circolo ARCI della capitale difficilmente sarà ripetibile. Facciamo chiarezza.
I ragazzi de Lo Stato Sociale hanno, in realtà, poco da spartire con quella cultura, più dell’immagine che altro, “indiependente” che sta prendendo piede anche nel nostro stivale (…ehm), perlomeno a prima vista. Sembrano, in effetti, dei ragazzi pronti ad andare in spiaggia: camicie a maniche corte, pinocchietti e persino ciabatte flip-flops che con l’umidità che c’è mi fanno starnutire soltanto a guardarli. No, i Lo Stato Sociale non sono indie anche se potete leggere di loro su tutte le webzine del settore, compresa questa. Loro sono pop di una poppagine intrinseca, genetica, e me ne rendo conto appena iniziano a far trillare le loro tastierine. Davanti, in prima linea, abbiamo Lodo (voce, chitarra e tastiera) e Alberto (basso a 5 corde senza una corda e cori) adibiti alla componente “pirotecnica” e teatrale (non a caso Lodo fa l’attore anche quando non suona). Immediatamente nelle retrovie troviamo il cuore elettronico del gruppo: Bebo (che assieme ad Alberto e Lodo forma il nucleo originario della band) alla drum-machine e Carota alla tastiera. Infine, più defilati e composti, a riscaldare il suono sintetico, Laura e Luca, rispettivamente sassofono e violoncello.
Insieme mettono in scena uno show totale e variegato come se stessero suonando in un palazzetto dello sport invece che in un bar poco più grande di una sala prove con la gente seduta ai tavolini, come in uno di quei fumosi night club che si vedono nei film americani anni ’50. Il sestetto sciorina quasi tutti i suoi pezzi: dal rap urlato di “Brutale” a quello metrosexual di “Magari non è gay ma è aperto” passando per l’elettro-pop incalzante e sindacalista (“il lavoro debilita l’uomo”) di “Cromosomi”, fino alla ballatina xilofonata de “L’amore ai tempi dell’Ikea” (title track del loro ultimo ep) che tirano avanti per 10 minuti, con Alberto che suggerisce i versi a un Lodo ormai ben carburato dall’alcool. Non può ovviamente mancare l’inno “Sono così indie” con Bebo che declama luoghi comuni sulla cultura hipster: gli occhiali da pentapartito, il rap alternativo, le camicie a quadrettoni, le magliette artigianali e twitter che è fuori moda. Dal lato opposto al palco (che palco non è) sotto i tavolini i piedi inseguono il ritmo della cassa dritta mentre sopra di essi le bocche singalongano catchissimi ritornelli e ragliano risate d’apprezzamento per le battute imperterrite e dementi che inframezzano i vari brani e che sembrano preparate anche se improvvisate, o magari sono preparate ma sembrano improvvisate, non è chiaro. Il climax dello spasso arriva quando Alberto “minaccia” di stagedivare su un paio di astanti per poi spiaccicarsi di pancia sul pavimento. Degna di nota anche la jam session a cappella alla fine di un pezzo fatta di gorgoglii, frasi a cazzo di cane e urletti da checca isterica. Per il bis, ottenuto con una breve acclamazione di tutti i presenti (una ventina di persone), i nostri propongono “L’apatico” (dall’ep di debutto Welfare Pop), “Maiale”, b-side di “Cromosomi” eseguita da Lodo in solitudine con il resto della band che esce momentaneamente dal locale e infine ripetono il loro pezzo simbolo, “Pop”, guarnito – ad uopo di mini-tributo – dal giro di note di “Close To Me” dei Cure.
Indubbiamente è stato il concerto con il rapporto affluenza di pubblico/galvanizzazione di tutti i presenti più inversamente proporzionale che abbia mai visto. Lo Stato Sociale, col suo pop colorato e surreale ma anche sottilmente politico è riuscito a farmi sentire parte di qualcosa di grande e divertente: una scena in cui dei ragazzi vogliono, sì, soltanto divertirsi e divertire ma lo fanno talmente bene e in modo così passionale che è inevitabile che sfondino l’atmosfera della nicchia. Per questo è stata un’esperienza irripetibile, con tali numeri (e un album già in programma) sarà difficile riviverli in contesto intimo di questo genere. Quindi in attesa di vederli suonare al Magnolia, al Circolo degli Artisti o come headliner in qualche festival andate ora a frastornarvi con i loro beats e a conoscerli di persona per poter dire, da veri hipster: “ascoltavo Lo Stato Sociale prima che diventassero mainstream”. E se sarete furbi continuerete ad ascoltarli anche dopo
(Francesco De Paoli)
Foto: Francesco De Paoli