Non deve essere stato per niente facile per Joe Lally dover ripartire da solo dopo l’improvvisa pausa con i suoi FUGAZI e proprio lui che si è sempre sottovalutato tecnicamente all’interno del gruppo, ha dimostrato di potercela fare con le proprie forze, imparando a comporre e a cantare con la sua voce e dando alla luce due bei dischi minimalisti e un pò sperimentali che fanno del suo basso lo strumento essenziale.
Joe è un musicista ormai ben rodato e come terza prova ha cambiato un pò direzone, nel senso che questo nuovo Why should i get used to it si avvicina, quanto mai fatto nei precedenti dischi, ad un tipo di forma canzone più convenzionale, sempre con il suo fedele music-man nero come ossatura dei pezzi ma lasciando ora i giusti spazi agli atri strumenti. Joe si circonda sempre di tanti amici all’interno dei suoi lavori e in ogni disco si trovano sempre componenti diversi ed è così che a prestare le sei corde è la catanese Elisa Abela mentre alle percussioni si ritrova ancora con Ricardo Tomasino di derivazione prettamente jazz. Le quattro corde iniziano a vibrare su “What makes you” ed è subito riconoscibile lo stile che ci ha già abituati con i lavori precedenti, sempre con la sua caratteristica voce sottile, ma è quasi un intro che và liscia come l’olio senza tanti punti su cui soffermarci. È con “Nothing to lose” che riesce a strapparci sin dalle prime note un bel sorriso, Joe sà essere incisivo mantenendo un certo groove per tutto il pezzo e la brava Elisa riesce a farci ricordare un certo Ian Mackaye. Si rallenta il “tiro”, compare un flauto dalle sembianze indigene e la batteria di Ricardo si fà ora delicata dando sfogo alle sue qualità tecniche, il tutto sorretto da pochi accordi di Joe in un flusso sonoro quasi sinuoso; le qualità di questo nuovo lavoro sono per l’appunto saper mantenere attento l’ascoltatore sia con passaggi quasi “eleganti” che con commenti di assoluta “anarchia musicale” come in “Philosophy for insects”, riverberi in costante dilatazione che concedono lentamente e gradualmente spazio a un basso “sofferto”, la chitarra di Elisa se ne và per i fatti suoi in accordi schizofrenici, su derive noise, affermandosi forse come uno dei pezzi più belli di Joe Lally.
Altro momento particolarmente “alto” è “Let it burn”; Ricardo si dimostra ancora una volta un’ottimo percussionista con una batteria sincope che si mette in luce davanti a tutti, sembra quasi una jam session e forse lo è per davvero. Giungendo verso il finale si trova un pezzo delicato come “Last of the civilized” dove fà la sua comparsa pure un violoncello, ma la chiusura è destinata a “Ministry of the interior” con linee di basso belle corpose che vanno in levare assieme a una chitarra sempre più “nervosa”.
Questo è un disco “intimo” che fà della sua semplicità l’arma vincente e anche se Joe probabilmente sente ancora la mancanza dei suoi FUGAZI, ha dimostrato per la terza volta che lui e il suo “timido” basso se la sanno cavare bene anche da soli.
(Andrea Tamburini)