Distorsioni e melodia. Aromi anni ’90 e afrori Eighties, in un amalgama senza soluzioni di continuità. Questa la ricetta del quintetto romano dei Dirtyfake. Una stele di Rosetta che sovrappone traduzioni del verbo indie declinato in epoche e contesti diversi. Sorretti dalla voce carica di pathos di Fabrizio Byron Rink, ugola affine al Brian Molko dei tempi d’oro, i nove brani di TumorRow sciorinano suggestioni e suoni fino a comporre un sussidiario musicato del rock indipendente, nel quale però tutto è scompaginato da accostamenti imprevedibili che rendono l’ascolto un percorso sinuoso, dove le melodie scartano verso direzioni imprevedibili e aperture inedite. Quando pensi che “Myhisteric” sia sulla buona strada per diventare uno Slint postumo, ecco che irrompono gli X; la gemma iniziale “My indiecation” taglia e cuce insieme scampoli di Dinosaur Jr e Magazine; i Karate jazzati che aprono “Plumfake” lasciano gli strumenti ai God Machine. I suoni degli ultimi trent’anni sono malleabile materia grezza nelle mani dei Dirtyfake, i quali la maneggiano con perizia; e senza timore reverenziale mandano lo shoegaze a grattare il gargarozzo ai Sonic Youth; fanno scendere a patti Radiohead e Cult; si caricano di pathos e di furia grunge, rigore post-rock e languori slowcore. Fortuna vuole che la band romana abbia il senso della misura, cosicché il disco appare cangiante ma non prolisso: un cross-over attraverso il tempo che si fa cifra stilistica e l’identità del gruppo è salva da accuse di novelli dottor Frankenstein del rock.
(Francesco Morstabilini)
Dirtyfake’s TumorRow (Ita/Eng) from Dirtyfake on Vimeo.