Prevedere come sarà un nuovo disco degli Ulver è come voler provare ad indovinare sul tipo di persona che incontrerai ad un appuntamento al buio cui l’unico indizio é l’indirizzo ed il nome della persona da incontrare. L’elemento che accomuna le due cose é giustappunto il buio, indefinito e scuro che rende le cose intrigati e misteriose, sovente anche pericolose.
La band norvegese è stata sempre, fin dagli esordi, un’entità camaleontica capace di passare dal black metal dei primi album (ancor oggi ai loro concerti, seppur la band non propone più il genere musicale sopraccitato, si scorgono comunque sagome lungocrinite che sperano di poter ascoltare brani tratti da Bergtatt) all’elettronica contaminata di jazz (il masterpiece, nonché disco di svolta, Perdition City) fino ai richiami dark-wave eterei del penultimo Shadow of the Sun. La strada dei Nostri si affaccia nuovamente su un bivio e come previsto viene battuto il sentiero poco esplorato, adornato da strana vegetazione, dove i colori circostanti cambiano a seconda della luce che vi si riflette. Questa volta peró, a differenza del capitolo precedente, le composizioni sono piú organiche e reattive, pochi sono i momenti veramente sfiancanti (e forse anche un pó inutili) come nella traccia conclusiva “Stone Angels” nella quale sono racchiusi 15 minuti di avanguardismo ambient infarcito da schizzi impazziti di free jazz, bastimenti di synth allungati fino allo sfinimento e spoken word. Ma non é tutto cosí questo War of Roses, per fortuna, anzi si parte subito in quarta con il movimentato primo singolo “February MMX” dentro il quale convergono partiture prog-rock su tappeti di tastiere. L’ardore iniziale peró viene poi placato dagli umori riflessivi di “Norwegian Gothic” il cui titolo dà un idea del suo contenuto. Ma è con “Providence” che la band tocca un nuovo livello compositivo, per la prima volta vengono aperte le porte dell’antro scuro in cui gli Ulver si rifugiano da sempre, ed in quell’antro stranamente entrano spiragli di Luce nelle fattezze, e nella voce, di Siri Stranger la quale dona un’aura meno cupa, quasi romantica, ad un brano dal cantato quasi soul (nel senso più obliquo del termine, sto parlando pur sempre degli Ulver) che andrebbe a braccetto con le migliori cose fatte dagli Anathema in questi ultimi anni; questo si rivelerà uno dei momenti più interessanti dell’intero disco. Quello che poi sopraggiunge é un susseguirsi di periodi musicali sempre in equilibrio tra l’etereo/esoterico (“Island”), gothic rock come solo i 3 lupi possono interpretarlo (“England”, “September IV”), il tutto sporcato da soluzioni free-jazz psichedelico come modus operandi.
“War of the roses” conferma che la band ha ancora molto da dire varcando territori poco battuti nei quali sperimentare il proprio ego artistico che talvolta peró sfocia in barocchismi leggermente pedanti o in situazioni eteree al limite della narcolessia (vedi sempre alla voce “Stone Angels”). Piccole macchie dunque che non infangano quanto di buono é stato fatto finora dagli Ulver, anzi questa nuova fatica discografica fa comunque ben sperare per la produzione futura. A conti fatti l’appuntamento al buio con questo disco ha confermato la sensazione iniziale di non poter andare in bianco, lasciando finalmente defluire l’adrenalina accumulata per l’attesa di questo incontro.
(Antonio Capone)