Seattle, 2008. Cinque ragazzi poco più che ventenni vengono messi sotto contratto dalla leggendaria etichetta Sub Pop e danno alle stampe il loro primo, omonimo album: un irresistibile amalgama di armonie vocali magiche e oniriche, che perfettamente si adattano a quel folk acustico che così chiaramente trae origine dalla migliore tradizione cantautorale americana degli anni ’60 e ‘70. Il tutto è tenuto assieme da una freschezza e spontaneità melodica che in questo periodo ha pochi paragoni. L’impatto è immediato, pubblico e critica s’innamorano istantaneamente di questi giovanotti che anacronisticamente vestono camicioni di flanella, barba e capelli lunghi.
Oggi, a tre anni di distanza, le attese e le aspettative sul nuovo album dei Fleet Foxes sono altissime: riusciranno i nostri a superare l’agognata seconda prova? La risposta è presto detta: basta far scorrere pochi minuti questo Helplessness Blues nel lettore. Ma mai come in questo caso le parole sembrano vuote e inadatte a descrivere quello che ci trasmette la musica. Il timbro vocale e armonico del gruppo (oggi divenuto un sestetto, grazie all’arrivo del polistrumentista Morgan Henderson, ex bassista dei Blood Brothers), è immediatamente riconoscibile. Ritroviamo quelle perfette armonie che già ci avevano incantato, di cui Beach Boys e Crosby Stills & Nash sono maestri. Nonostante l’effetto sorpresa sia svanito, c’è tuttavia una piacevole e calda sensazione di familiarità che ci avvolge fin dalle prime note. Anche le influenze si sono ampliate: non a caso Robin Pecknold, frontman della band, ha citato come maggiori fonti d’ispirazione la vocalità passionale di Van Morrison in “Astral Weeks” e il folk psichedelico creato dalla dodici corde di Roy Harper in “Stormcock”. “Montezuma”, traccia d’apertura, ci trasporta in paesaggi lontani e ancestrali, così come la title-track “Helplessness Blues” (uno dei momenti più riusciti del disco), o “Grown Ocean”, con dei lontani richiami alla Arcade Fire. “Sim Sala Bim” ha un retrogusto che sa di Simon & Garfunkel, ma lungo la tracklist troviamo segni di altre leggende del songrwriting made in USA, come Neil Young o Bob Dylan. Una maggior ricchezza sonora e strumentale rispetto al primo disco, unita ad un lirismo introspettivo, cullano la nostra mente traccia dopo traccia, su atmosfere surreali e sognanti, a volte esotiche (“The Cascades”). Il pregio dei Foxes, tuttavia, resta la loro abilità di creare melodie accattivanti e coinvolgenti, che suonano incredibilmente giovani e nuove, ma che sembrano affondare le proprie radici in luoghi senza tempo (“Lorelai”, “The strine/An Argument”). Già dopo il primo ascolto abbiamo la sensazione di avere a che fare con degli instant classic, che riescono, ancora una volta, a conquistarci.
(Silvia Pellizzon)
Fleet Foxes – Grown Ocean from Fleet Foxes on Vimeo.