Federico, Davide, Michele, un giorno mi deluderete com’è già successo per Amari e Subsonica, tirerete fuori un disco di merda e lo odierò con tutto me stesso più una buona parte di qualcun altro, ma nel frattempo avrete la transenna piena di infoiate e sarà anche giusto che ognuno prenda la propria strada. Nel frattempo continuo a tessere le vostre lodi, come una Penelope che in attesa di ogni concerto fa e distrugge la tela, finché reggo vi griderò in faccia.
Il concerto alle Officine Cantelmo di Lecce per noi comincia alle 13. Tre disperati che si ritrovano in stazione per fare circa 300km, dal desolato Tavoliere al plumbeo ma sempre ridente Salento. Partiamo così presto che quando arriviamo ci siamo solo noi, i Ministri dentro (loro che dovrebbero essere fuori sempre e comunque) e un gruppo di ragazzette che al solo intravedere Divi caccia un urlo di quelli che Hitchcock ha meravigliosamente immortalato in “Psycho”. Tra l’attesa e la prova vocale in qualità di futuri neomelodici, finalmente riusciamo ad entrare, e ad accorgerci subito che no, non si fa così. Le transenne delle Officine Cantelmo sono di quelle che mettono i vigili urbani la domenica sul viale, per chiuderlo al traffico. Se siete già stati a vedere i Ministri capirete quanto potessero essere efficaci. La preoccupazione si leggeva lampante negli occhi della nostra splendida fotografa, che con senso del dovere e sprezzo del pericolo, prova comunque a rimanere nella bolgia. Il tempo di spegnere finalmente le luci e il 118 del Vito Fazzi di Lecce indossa le tute. Cominciano con “Fari Spenti”. Quando vedi i Ministri in concerto, in un certo senso un po’ ci speri che comincino con “Fari Spenti”, sia perché è un pezzo “impegnativo” per chi sta sotto il palco a lottare, sia perché è davvero soddisfacente cantarla a pieni polmoni, quando ancora hai un po’ di aria. Quel La tenuto per un po’ di tempo carica a mille l’atmosfera e, come prevedibile, si scatena il boato appena esplode il resto della canzone. Cantiamo picchiandoci e reggendo la transenna per non ammazzare chi cerca di immortalare qualche momento, qualche faccia, e riusciamo a superare quasi indenni la prova della traccia iniziale. Da questo momento in poi tutto è a rischio e pericolo della prima fila, comincia “Il Sole” e Federico comincia a sudare. Per pura fortuna sono scivolato più in là di quanto il sudore di Dragogna riesca ad
arrivare, quindi mantengo le transenne e grido, ma è un grido che dura poco e si affievolisce quando nel riprendere aria ci si accorge che il prossimo pezzo è “Bevo”. E, per celebrare il momento, F Punto prima di cominciare apre una bottiglia di rum che teneva sull’amplificatore e – a grandi sorsi – si dà la carica. Noi da sotto ci accontentiamo delle bottigliette d’acqua che lancia Divi, che in quel momento sembrano oro. Lecce se la son sudata, è il caso di dirlo. Escludendo una puntata dei Calamari a Gallipoli, i tre non avevano mai calcato insieme un palco salentino, quindi cercheranno di lasciare la loro impronta facendo come suggerisce quel motto di guerra americano “Take no prisoner”. E allora “Due dita nel cuore” e si vomitano parole fino a tirare il fiato con “Gli Alberi”. Dopo Gli Alberi c’è “La Piazza”, sempre più bella dal vivo, con i fa che non parli di me che diventano sempre più nervosi e indicativi, sembra ce l’abbia con noi, anzi forse ce l’ha davvero con noi, fatto sta che stordiscono come un pugno allo stomaco. Poi c’è “Una questione politica”, per quello ho cominciato a salire sulle transenne – peraltro ignorato dalla security che mi guardava come a dire “mah, contento tu” – e mi faccio viziare, grazie anche ai baldi giovani sul palco che intonano “Vestirsi male” che, se sul disco può sembrare un po’spenta, live rende mille volte meglio. È tempo per un pezzo molto difficile anche per Divi, come ammette egli stesso. Certo, misurarsi con David Bowie non dev’essere proprio la cosa più facile al mondo. Sarò di parte, indubbiamente, e non blastatemi per questo, ma secondo me la loro cover di “Ashes to ashes” è venuta benissimo. Certo, la pesante definizione “meglio dell’originale” la lasciamo a
riviste come Cioè, Big, insomma quelli che si esaltano quando Miley Cirus coverizza i Nirvana, ma bisogna comunque onestamente ammettere che anche senza i synth quel pezzo suonava maledettamente bene. Nel tempo morto che segue, mentre Divi comincia a spogliarsi per la gioia delle fanciulle, e Federico si accorda, lo stesso chitarrista con la complicità di Divi annuncia il prossimo pezzo, ricordando le sue radici. “Avevo una nonna di Gallipoli, che usava come unità di misura del suo affetto le polpette”. E Divi rincara la dose: “io avrei voluto una nonna tedesca, così mi dava la birra. Invece mi dava la terra”. E mentre tutti ormai hanno capito il prossimo pezzo, negli occhi dei miei amici leggo la mia stessa preoccupazione: reggerà la transenna? In effetti le è stato riservato un compito duro ma che, almeno fino ad ora ha svolto al limite delle sue possibilità. “Mangio la terra” passa e le mie corde vocali hanno ormai assunto il timbro che ha reso celebre Franco Califano, e in un botta e risposta immaginario, i Ministri sostengono che non gliene frega niente, anzi. Vogliono vederci soffrire. “Se piove così dove vai” sembra una frase pensata apposta per chi trova sollievo nello sfuggire, almeno per questi quattro minuti abbondanti alla furia termoregolatrice del corpo del Dragogna, che tanto sono sicuro riuscirebbe a sudare anche in un live al Polo Nord. Michele, madido anch’egli e F Punto, fradicio di rum abbandonano momentaneamente il palco, per lasciare spazio a due pezzi acustici, nei quali ho come la sensazione che tra Federico e Davide si crei un legame particolare, in bilico tra l’omosessualità e la complicità esistenziale, un legame meraviglioso che sfocia in un abbozzo di “I muri di cinta” (al termine della quale si sentirà distinto il mio VAFFANCULO per non averla sentita tutta intera) ed “Il bel canto”, da più parti considerato il miglior pezzo per intensità del trio milanese.
Risalgono gli altri sul palco e si presagisce la “botta forte”, ci si conta le ossa per assicurarsi che a fine concerto siano sempre quelle, e si respira. “Vicenza (la voglio anch’io una base a)” fa piegare definitivamente le transenne che hanno già resistito un’oretta sotto il peso della spinta del pubblico, e costringe la security all’intervento. Serafici e composti impongono alla fila le loro braccia, e sebbene su “Noi Fuori” e “Tempi Bui” riescono anche a cavarsela abbastanza bene, basta una sola nota, un Fa# per distruggere tutto il lavoro finora svolto. È incredibile come una sola nota possa portarsi con sé delle emozioni tanto forti. Il Fa# apre “Diritto al Tetto”, e si contano i morti ai quali non è giunta neanche una goccia dell’acqua di Divi e che, nonostante grazie a ciò sia riuscito ad arrivare in prima fila proprio adesso che Divi è sceso dal palco quasi per venire a cantarmi in faccia, riesco ancora a vedere. Forse rosicano pure, tanto meglio. Sto cominciando ad abituarmi all’idea che domattina potrò cantare in un gruppo black o death metal, ma non sono mai abbastanza abituato alla fine. Abituarsi alla fine è un momento strano nei live dei Ministri. Da un lato c’è la soddisfazione di sentirla, la voglia di gridare che ci vuole tempo per ricominciare, ma nel frattempo si aggiunge anche una nota di saudade perché sai che quella, per quanto lunga, sarà l’ultima canzone. Quasi dieci minuti, che potrebbero sembrare interminabili, ma che passano davvero in un niente e Michele lancia le bacchette, F Punto scola il rum, e Federico e Davide buttano gli strumenti a terra per zittirli buttandoci sopra la giacca. È tutto finito, si accendono le luci e si scopre che l’aria ha un altro sapore ora che quei mefitici musicisti sono lontani. Eppure non è ancora abbastanza, e non sarà mai abbastanza finché continueranno a regalarci (per me un concerto del genere a 7€ è regalato) live così travolgenti, così emozionanti, così… diciamolo… unici.
Si ringraziano per questa esperienza Nico “A Serp” Sanitate e Simone “Fanzau” Lanzone, compagni di viaggio qualunque esso sia, e Ilenia Urso, fotografa e – magari – compagna di vita.
(Mario Mucedola)
Foto: Ilenia Urso