I Low sono un mistero. Non hanno mai messo al mondo un album brutto in tutta la loro carriera, hanno toccato vette artistiche vertiginose, eppure sono da sempre i patriarchi di un culto per pochi e tenaci credenti, ingiustamente relegati a minoranza religiosa. Sarà che la malinconia è mainstream solo quando è ruffiana (Coldplay docet); sarà che la mattina hai bisogno di qualcosa che ti dia la carica; sarà che non c’è il mare a Duluth. D’altronde succede anche al cinema: i film belli ma tristi sbancano raramente il botteghino, ché la gente vuole il lieto fine almeno nei sogni. Eppure la malinconia distillata dai Low in tiepide gocce d’ambrosia non ha nulla di deprimente, scarta abilmente la tristezza costante che accompagna tale sentimento per entrare in risonanza con corde sepolte che ci eravamo dimenticati – o abbiamo voluto dimenticare – di avere. Le corde della mancanza, dell’assenza. In fondo, tutti abbiamo qualcosa di perduto per cui struggerci. E lo slowcore dei Low è propedeutico all’elaborazione dell’assenza e alla catarsi. Peccato però che nell’epoca dell’appagamento a tutti i costi sia meglio rimuovere piuttosto che affrontare le falle che minacciano la nostra soddisfazione.
C’mon è il nono album di studio dei Low ed è, manco a dirlo, un capolavoro. Dopo i “pieni” elettrici di The Great Destroyer e i “vuoti” elettronici di Drums and Guns, il trio di Duluth smembra la “luce” del pop. Non l’obnubilante luce di una giornata estiva dalla quale lasciarsi inondare, bensì il puntolino tremolante che si intravede alla fine del tunnel e che attiene al languore dream dell’iniziale “Try To Sleep”, ai palpiti jingle-jangle del commiato “Something’s Turning Over”, agli Smiths al ralenti di “You See Everything”. Nel tunnel ci sono invece scenari da deserto suburbano, percorso nottetempo da sognanti sonnambuli incantati dal riflesso dei lampioni in fuga sul finestrino dell’auto (“Witches”), gospel disossati (“Done”), la nuda intimità di vecchi album dei ricordi (“Especially Me”), echi di twang nel buio, antiche preghiere in onore a dei dimenticati. L’intreccio vocale tra le ugole di Alan Sparhawk e Mimi Parker non è mai stato così pulito, essenziale, radicale, emozionante, perfettamente incastrato nelle melodie sinuose e minimali, colorate da spennellate di banjo, leggeri tocchi di archi, carezzevoli sbaffi di lap steel. L’anima dei Low di C’mon trova compiuta espressione nel lungo crescendo di “Nothing But Heart”, un mantra a spirale che si costruisce nota dopo nota, un po’ supplica, un po’ ammissione, un po’ grido liberatorio, sospeso tra distorsioni trattenute e gospel pagano: nuvole che si aprono su una pianura odorosa di pioggia. C’mon è un album affascinante, profondo, a cavallo tra un’estate breve e un autunno mite, nonché l’ennesima conferma che i Low vanno fatti santi subito.
(Francesco Morstabilini)