Per scrivere questa recensione ci ho messo tempo, più del solito. Il fatto è che i Fratelli Calafuria non sono così immediati come possono essere altri gruppi, e Musica Rovinata necessita di almeno quattro/cinque ascolti per essere metabolizzato per bene. Chi, seguendo il nome, si aspetta un disco lounge o quantomeno composto da ballad sarà fortemente deluso. I Fratelli Calafuria, nonostante abbiano perso per strada Tato, il batterista, non accennano minimamente a calare il ritmo.
La dimostrazione è “Pezzo Giallo”, l’incazzatissima opener che in dueminutiediecisecondi apre e di fatto chiude anche il disco. Già, perché l’intento di Andrea e Paco è quello di inserire punk, funk, jazz, noise, no wave, electrock in un frullatore, aggiungere testi deliranti e melodici q.b. e accendere l’apparecchio alla massima velocità. Possibilmente senza coperchio, in modo da “Fare Casino” che, per inciso, è una delle mie canzoni preferite, sia per il tiro che ha, sia per il senso intrinseco del pezzo, un proclama energico, un urlo di battaglia, come il “Viuleeenz” di Abatantuono in un film di qualche anno fa, e per inquadrarla sommariamente, diciamo che può ricordare vagamente i Death From Above 1979. Ma non c’è niente di oltreoceano, né di oltremanica nel cuore del progetto dei Calafuria. Il disco è stato registrato presso i Massive Arts Studio di Milano, e i due si sono avvalsi della collaborazione dell’ormai onnipresente Giulio Ragno Favero, che ha suonato la batteria in “Di Testa”, uno dei testi meno “solari” del lavoro, ma che si mantiene sempre sul filo sottile che divide dei testi visionari a delle prese per il culo. Favero suona anche in “Musica Rovinata”, la violenza fatta title track, con quei suoni che ricordano un po’gli Atari, i videogiochi. Troviamo Favero anche in “Pulsantoni”, la delirante invettiva a favore dei pulsantoni, che servono a cambiare le cose. Rimanendo in tema di ospiti, in “Disco Tropical” troviamo Dargen D’Amico, ormai più presente in qualità di ospite che in qualità di solista, e Moreno Ussi de La Crisi che ha suonato la batteria in altri cinque brani. Comunque, a ben pensarci, i Fratelli Calafuria mi ricordano tanto gli Amari di “Gran Master Mogol”, ma con un po’ di elettricità in più, il ché li rende decisamente atipici nel panorama italiano. Sono eccessivi, sboccati, violenti, estremisti, fondamentalisti sonori. E vanno benissimo così.
(Mario Mucedola)