“La Tua Fottuta Musica Alternativa”, indie-rassegna che ravana nel mejo underground capitolino ma non solo, parte senza troppe menate alle 11 circa. Davanti al palco si forma un simpatico “ferro di cavallo umano”, sarebbe a dire quello strano fenomeno, dovuto a un tasso di timidezza degli astanti oltre la media, che consiste nella retrocessione della prima fila a 3-4 metri dal palco, lasciando dunque un grazioso buco fra pubblico e performers. Per dare l’esempio provo a piazzarmi in una posizione non troppo defilata. Non attacca.
I primi ad esibirsi sono i The Anthony’s Vynils: le cose oasisiane ascoltabili sul loro myspace vengono spazzate via da una sequela infinita (per le mie orecchie) di cover degli Arctic Monkeys. Ok, qui son prevenuto: in realtà erano brani originali ma davvero, davvero, davvero troppo simili a quelli della band di Sheffield, la quale è la cover band di se stessa per antonomasia per gli anni ’00 (per gli anni ’90 valgono i succitati Oasis). Mi colpiscono giusto per la disomogeneità della loro immagine: il cantante ha i capelli corti a punta e una t-shirt con su scritto “Rock Your Mocassins”, il chitarrista è un fighetto con una maglietta dei Beatles a collo larghissimo, capelli spumati e frangettosi, il bassista è biondo coi capelli lunghi e sembra un bifolco del Kentucky tipo Caleb Followill dei Kings of Leon, il batterista è robusto, ha un cappellino da baseball e pare un ultrà di curva _____ (inserire un punto cardinale a piacere).
Al di là dell’estetica variegata non sono troppo male: energia ne hanno, resto però dell’idea che ci sono diversi modi migliori per impiegare questo vigore in cose meno anonime. Sempre se il loro intento è quello di riuscire a farsi un nome sulla scena nazionale, chiaramente; se, al contrario, vogliono solo divertirsi, e divertire, senza pretese vanno più che bene così e, infatti, alla fine si prendono la loro dose d’applausi. Probabilmente perché non l’hanno tirata per le lunghe e perché tutto sommato anche a me hanno fatto dondolare la testa come un pupazzetto bobblehead per almeno 5 minuti di fila.
La piccola sala del Mads comincia a gremirsi per quelli che, evidentemente, sono i più attesi della serata: gli Indie Boys Are For Hot Girls, i quali partono come razzi e poco dopo si fermano: problemi d’acustica che poi diventano problemi tecnico-elettrici che poi diventano “che ci prestate un cavo?” che poi diventa “che ci prestate un delay?”. Nel frattempo passano 10 minuti e lo zazzerutto batterista della band prova ad intrattenere il pubblico con battutine sceme che fanno sghignazzare a mezza bocca per poi portarsi a casa una facile ovazione con l’inoppugnabile e sempreverde “comunque volevo dire che l’ultimo degli Strokes fa cacare”. 92 minuti d’applausi.
Il delay viene imprestato dal gentile chitarra degli Anthony’s Vynils: lo show può ripartire, col botto. E lì non ci capisco più niente, vengo investito dall’onda sonora degli Indie Boys. La prima cosa che penso è “post-hardcore” (che poi può essere tutto e niente), presumibilmente perché il chitarrista/cantante è un ricciolone rassomigliante a Omar Rodríguez-López degli estinti At the Drive-In (oltre che dei più famosi The Mars Volta), ma anche per via della loro potenza immediata che fa sbroccare i decibel (qualunque cosa significhi). I brani degli IBAFHG compiono tutti una rapidissima escalation emozionale con dei crescendo che dopo 10 secondi son già cresciuti, eppure il trio è misurato e non la tira mai per le lunghe concludendo alcuni brani con degli stilosissimi coiti interrotti.
Ad un certo punto noto un tatuaggio sull’avambraccio del ricciuto, è una scritta in corsivo: “The Strokes” recita. Dunque, la battuta del batterista celava una punta di rammarico. Poco importa: il rammaricato in questione picchia come un invasato, mi fa headbangare di gusto e compie un indie-parricidio devastando il ricordo della band newyorkese con mazzate incessanti e impietose.
C’è poi spazio per una cover dei Queens Of The Stone Age, “Go With The Flow”, con tanto di chitarrista ospite, riproposta piuttosto fedelmente e per un pezzo in cui il cantante armeggia un po’ con il synth che emette una piacevolmente ammorbante scorreggia elettronica. Il concerto finisce con grossi applausi, mi fischiano le orecchie, non ci ho capito molto ma ho goduto copiosamente e mi è un po’ dispiaciuto non ritrovare, una volta tornato a casa, la metà di quell’impatto uditivo sul myspace. Ma me lo sarei dovuto aspettare. Andateli a vedere dal vivo.
I ragazzi sbaraccano e sul palco viene installata la strumentazione minimale di Death In Plains (un synth, un mac e un sequencer) e viene appeso, all’acqua di rose, un foglio di carta porosa di quelli da imballaggio per proiettarci sopra i visual, che infatti si vedranno una chiavica. Lui è Enrico Boccioletti (cantante e chitarrista dei pesaresi Damien*), un ragazzo pesarese smilzo con capelli corti frangettosi, occhiaie pronunciate e veste la classica divisa hipster (giacchetta di pelle e jeans neri aderenti) ma appena mette in moto l’armamentario la sensazione di già visto va a farsi fottere: non c’è più tempo per vedere, solo per chiudere gli occhi e farsi trascinare dal vortice della sua musica. Chillwave, electro-gaze, hypnagogic pop: termini impenetrabili che possono solo etichettare lacunosamente un suono densissimo, musica dance da ballare lentamente con gli occhi, con le dita e con l’ippocampo e l’amigdala (due zone del cervello responsabili della produzione dei sogni). DIP smanetta sulla plancia del sequencer con i suo tastini colorati lampeggianti, accavalla loop, ora ronzanti, ora profondi, ora vocali che registra col suo microfono dal quale canta anche, con un riverbero siderale che fa sentire leggeeeeri. Non c’è molta gente: la sala si riempie e si svuota di persone ritmicamente, come un cuore pulsante, quasi assecondando la musica. Chi resta è incuriosito, chi non capisce e non riesce a gettarsi nel gorgo se ne va confuso. Ad un certo punto arriva un ragazzo di colore, con un look più “gangsta” che “hipsta”: ha infatti le treccine e i pantaloni col cavallo sotto terra. Balla e la musica la sente dappertutto: sulle chiappe, sulle braccia, sui piedi e sul collo. Si piazza sotto al palco e si muove occupando un sacco di spazio, con scatti velocissimi e ampi, schioccando le mani come una frusta. Lo guardo stupito mentre contraddice la mia tesi su questa musica che sì balla più con con le sinapsi che col corpo, e riesce a coinvolgere anche altra gente prima immobile. Il set di Death In Plains finisce di colpo su un ronzio ascendente che non sboccia in una cassa tellurica e liberatoria: forse un artificio troppo sofisticato ma comunque l’unico neo di uno show davvero esaltante e, a tratti, alienante. Ad applaudire siamo rimasti in pochi a dire il vero, cosa che mi fa un po’ ripensare a certo atteggiamento italiano di disinteresse negli ambienti alternativi-ma-non-troppo per la musica elettronica vista come troppo “d’elite” o troppo “coatta” o addirittura come non-musica (“non suona degli strumenti veri”). Ma tutte queste seghe mentali svaniscono quando vedo il ragazzo nero di prima dare un abbraccio sincero al creatore di sogni sonori che ci ha intrattenuti. Un piccolo gesto che riconferma l’effetto unificante e totalizzante della musica e che solo un tizio “che non fa musica” è riuscito a suscitare in questa tiepida sera primaverile.
Una bella serata davvero: sudata, assordante e onirica. Tre aggettivi che non tutie gli indie appuntamenti del genere riescono a conciliare.
(Francesco De Paoli)
Foto: Giulia Delprato