In un vasto e articolato panorama sonoro, una voce, quasi fuoricampo, che “dice” in maniera estremamente ermetica il testo di ogni singola canzone di questo Frontiera è come il rimbombare filtrato di uno speaker da aeroporto che annuncia ritardi. Perfettamente in tempo, invece, i Bancale spendono loro stessi per una celebrazione dell’arte a 360 gradi. Innumerevoli le citazioni, tutte di livello, in questo loro esordio sulla lunga distanza che non solo mostra il grado di talento e lo spessore del gruppo, ma propone anche il terzetto sotto una luce puramente culturale; i tributi a Pavese in “Un paese”, a Pancake in “Lago del tempo”, a Catrame di Genna nell’omonima “Catrame”, a Fossati e a PPP in “Cavalli”, decorano quest’opera già ben cucita di per sé negli ottimi contorni blues immersi in un primordiale verso industrial, per via dell’ingegnoso utilizzo di attrezzature da cantiere in continuo fermento. Si tratta solo di un interessantissimo appunto su quella che è la vicenda dei Bancale, un nome cantieristico per un gruppo da “camera” o da “pulpito” che nasce nel 2006 dalle intenzioni di Luca Vittorio Barachetti (voce), Fabrizio Colombo (percussioni) e Alessandro Adelio Rossi (chitarra) di assettare musica come supporto per le parole che lungo tutti gli oltre 45 minuti di Frontiera mantengono un tono lineare da comizio di una persona evidentemente ferita o aggredita e violentata o ispirata dalle parole di Pasolini stesso, negli istanti finali di “Cavalli”, nella quale, in un ritmo cadenzato quasi da marcia, confuso nelle distorsioni, proferisce i versi da “La terra di lavoro”. Un palinsesto che nella sua compattezza ha in sé tutti i caratteri della sorpresa per via di una continua manipolazione delle manovre sonore, soprattutto da parte del braccio meccanico ed elettronico di Alessandro che in misura precisa sostiene il vagheggiare tra le parole della voce nel rincorrersi di un male oscuro, perché non è il nostro, in “Megattera” e in maniera più violenta, in controluce con un oscuro arpeggio, in “Corpo (giorno che scorno)”. Il picco prima del baratro da movimento tellurico di “Calolzio”, ramo dalla genesi quasi blues che non soffre un solo istante della supremazia delle percussioni. Per un cercatore d’oro è come l’aver trovato l’Eldorado, per un ascoltatore di buona musica è il passo nel luogo segnato poco fuori dalla mappa, un’altra frontiera.
(Lorenzo Tagliaferri)