I Does It Offend You-dove-caspio-hai-pescato-questo-nome-, Yeah? tengono botta. Dopo rimaneggiamenti di formazione e cambio di scuderia, i cinque di Reading possono finalmente dare alle stampe l’atteso secondo album, in coma farmacologico da quasi due anni. Nessuna rivoluzione francese per carità, perfino il titolo si riallaccia all’album del 2008: Don’t Say We Didn’t Warn You – “non diteci che non vi avevamo avvertito” – è diretta conseguenza del non aver preso in considerazione l’ammonimento “non sapete in cosa vi state cacciando” preposto a intitolare il primo album.
Poco male, ché ai teppistelli non si chiedeva altro di continuare a farci drenare sudore da ascelle e inguine con la loro dance bastarda, nata da madre rock e padre ignoto, incrociato in qualche rave nella campagna inglese. Si scorge qua e là un tentativo di cercare strade nuove, di ispessire il suono, di strutturare i brani, ma niente da fare, i DIOYY? ci piacciono quando sono tamarri. Prendete “We Are The Dead”, per esempio: dopo l’arpeggino acustico iniziale, si accoglie con sollievo l’avvento del 4/4 martellante che esplode dopo pochi secondi; o “John Hurt”, così intitolata perché doveva contenere un featuring dell’attore ma che invece finirà nella storia per essere il 1500esimo brano a riproporre il sample del Wooh! Yeah! di James Brown, cafonissimo sbeffeggio ai Muse più barocchi. Ci piacciono meno, pur restando sopra la sufficienza, quando vogliono fare i sofisticati: vedi “Pull Out My Insides”, college-indie-rock arpeggiato e rivestito da un mezzo punto di tastiere epicizzanti molto Plushgun, e “Broken Arms”, una ballata (no! Una ballata!) brumosa che sale, sale, sale, fino a tirare le falde della giacca ai Doves. Passando alle note positive, il trio meraviglia è composto dalla dance pestona ai limiti della house di “The Monkeys Are Coming”; dall’insinuante “Wrong Time Wrong Planet”, adatta allo strusciamento e al contatto di mucose; e da “Wrestler”, che non sfigurerebbe in mano ai Chemical Brothers. Brano jolly per la quaterna è “Wondering”, che unisce sacro e profano infilando tra le rime da bullo di Trip un sample di “Sly” dei Massive Attack. L’insieme scorre che è una meraviglia e non ti accorgi nemmeno che certi brani sono perfettamente inutili; sculetteresti perfino in metropolitana all’ora di punta; e se qualcuno ti fa notare che “The Knife” è uno scarabocchio ispirato a Fear Of Music dei Talking Heads, mandalo al diavolo.
(Francesco Morstabilini)