Avevo 9 anni quando, nel 1991, impazzava alla radio questo singolone pop sorretto da una suggestiva linea melodica di mandolino, tanto ammaliante quanto emozionante, intitolato “Losing My Religion”. Certo, illo tempore mica me lo spiegavo così, però mi piaceva un sacco, tenevo accesa la radio apposta nell’attesa che passassero il brano, smanettavo di brutto su tutta la banda FM, a volte AM, cercandolo indefessamente neanche ne andasse della mia stessa vita. Il tempo passò, iniziai ad ascoltare musica con un minimo di cognizione di causa e fu in piena fase grunge che ritrovai per puro caso questa canzone e i R.E.M. Merito e onore al gruppo di Athens l’avermi introdotto al mondo del pop, che prima di loro nel mio lettore CD non avrei mai inserito nulla di meno distorto dei Mudhoney. Che emozione scoprire anche che i R.E.M. non partivano da Out of Time, bensì da prima, molto prima. Credo sia destino di noi nati negli anni ’80 giungere in ritardo su qualsiasi cosa, operare un processo di ricerca a ritroso nelle scene musicali, in quanto maturati nel pieno nulla dei secondi anni ’90: sarà forse per questo che, quando i ragazzi della mia generazione hanno cominciato a suonare, siamo entrati nel vortice del revival new wave?
Mi hanno accompagnato per vent’anni, i R.E.M., mentre loro festeggiano il trentesimo compleanno artistico col loro quindicesimo – e forse ultimo – album di studio. Trenta e quindici sono due bei numeri con cui chiudere una carriera e Collapse Into Now sarebbe un canto del cigno che pochi gruppi possono vantare. I capolavori sono appannaggio del glorioso passato, ma non si può dire che i R.E.M. abbiano mai licenziato un album veramente brutto; anche quelli scritti con la mano sinistra riuscivano a spiccare un sei in pagella senza essere rimandati a settembre. Il pregio della band sta nell’essere mainstream senza ruffianerie; placidamente neutrali ad ogni rivoluzione seppur dotati di uno stile unico e personale, i R.E.M. non hanno mai dato la sensazione di assomigliare a qualcuno. Ecco, se c’è un difetto in Collapse Into Now, quel neo è che assomigliano troppo a se stessi. Alla fine, l’album sembra un bignami dell’arte R.E.M., un the best of fatto di inediti della fase Warner della loro carriera.
Andiamo nel dettaglio. L’energica “Discoverer” potrebbe provenire da Green, in coppia con “That Someone Is You”; l’elettricità sostenuta di “All the Best” esce da Monster; “Überlin” e “Me, Marlon Brando, Marlon Brando and I” ripercorrono le atmosfere elettroacustiche di Around the Sun; la ballata crepuscolare “Oh My Heart” è un outtake di Out of Time; “It Happened Today” (con Eddie Vedder) evoca rimembranze da Reveal; “Every Day Is Yours to Win” ha qualche gene di Automatic For The People; “Mine Smell Like Honey” conserva la grinta di Accelerate, così come “Alligator_Aviator_Autopilot_Antimatter” (featuring Peaches); pura Automatic For The People è “Walk It Back”; la conclusiva “Blue”, in cui compare, ieratica e struggente, Patti Smith, ha le inquietanti movenze dei R.E.M. desertici del loro ultimo grande capolavoro New Adventures In Hi-Fi.
Il giochino appena compiuto lascia il tempo che trova, ma esprime appieno il sentore di collazione di frammenti, stralci, idee, che ha Collapse Into Now. È un lavoro realizzato grazie al mestiere e alla classe di Michael Stipe, Mike Mills e Peter Buck che non lascerà insoddisfatti gli ultras ma che al resto del pubblico restituirà un diffuso senso di déjà vu. Un altro problema dei R.E.M. sono i riempitivi, quei brani messi lì giusto per completare la scaletta e riempire un LP, tara a cui non sfugge nemmeno Collapse Into Now. A fronte di brani solidi, indiscussi capolavori che avrebbero potuto diventare nuovi classici della band se questa non avesse deciso di fermarsi, come le toccanti ballate “Oh My Heart” e “Walk It Back” e la glauca salmodia di “Blue”, puntellati da buoni episodi, “Discoverer” e “Überlin” su tutti, il resto è giusto apprezzabile, ma prescindibile (vedi il rock’n’roll di “That Someone Is You”). Infine, manca la nervatura di un discorso univoco a dare compattezza all’insieme e mai i R.E.M. erano caduti in così grossolano vizio di forma, sebbene la reprise di “Discoverer” posta a chiosa di “Blue”, l’alfa e l’omega della tracklist, sembri messa lì a bella posta per smentirmi, quasi che fosse precisa volontà della band realizzare un album che dicesse “questi siamo noi, questo è tutto ciò che siamo stati. Addio”. Io spero arrivederci. Ad ogni modo, è stato bello; grazie Michael, grazie Mike, grazie Peter, grazie Bill. Di tutto cuore.
(Francesco Morstabilini)