I partenopei Sula Ventrebianco (che prendono il nome da una specie di grosso uccello marino) sono proprio come l’Albatros di Baudelaire. A prima vista goffi e impacciati quando “sono a terra”: li guardi zampettare buffamente qua e là con il loro nome esotico, le loro dichiarate influenze anni ’90 riciclate, se non abusate, innumerevoli volte e la loro estetica non troppo accattivante e pensi che potrebbero essere benissimo il solito spennacchiato gruppo alternativo italiano con la personalità di un piccione a Piazza San Marco.
Prima impressione non esaltante, dunque: d’altronde in un mercato musicale come il nostro saturo di gruppi che fanno demo soltanto perché, in quanto “gruppo”, si sentono quasi in dovere di fare un demo, un po’ di puzza sotto al naso è consigliabile se non si vuol perdere tempo con musichette da gettare ancor prima di usare. Quindi, un po’ riluttante, ti decidi a far partire il disco e, sorpresa, il buffo uccello comincia a zompettare in avanti sempre più rapidamente e, zot!, decolla in verticale: è veloce, davvero veloce, volteggia e fa piroette con una grazia e una grinta prima imprevedibile, poi ti guarda come per dirti “adesso non faccio più tanto ridere, vero?”. No, non ridi più quando sei disteso a terra con le orecchie che fischiano: i bastardi si son fatti perdonare, con gli interessi.
Cosa? non è il solito disco underground con l’incisività di una flatulenza in un grande spazio aperto. “Cosa?” è un album succulento e gustoso come un casatiello: ti sazia e riempie, ma ne vuoi ancora. Nulla a che vedere con molte opere di loro colleghi farcite di moscio derivativismo che lasciano lo stomaco pieno d’aria e un po’ di nausea. “Cosa?” è un’autostrada immaginaria che collega Napoli a Palm Desert e poi dirama a nord verso Seattle.
Influenze piuttosto palesi, quindi: stoner, grunge, chitarroni sdruciti, suono sanguigno, voce ruvida e gonfia alla Josh Homme e tanta arsura. Ma a rendere la musica del quintetto campano veramente prelibata sono i loro ingredienti originali come l’affascinante mix di lingue diverse: italiano, dialetto napoletano e pure l’inglese che si alternano all’interno dei brani. C’è poi una cura tutta particolare per le melodie, ricamate da riff ora muscolari ora orientaleggianti o anche con l’ausilio di un violino perfettamente integrato, che rendono i brani fischiettabili senza far loro perdere l’aggressività, grazie a una base ritmica potente e “molleggiante”. E infine le liriche sebbene ermetiche rimangono in testa e viene voglia di urlarle (o balbettarle, quando sono in dialetto) a squarciagola. Ciò che davvero sorprende è l’incredibile compattezza dell’insieme, infatti non c’è un solo brano fuori posto: come per il volo di un uccello si passa da parti concitate a momenti riflessivi con una naturalezza invidiabile.
Con il loro esordio i Sula Ventrebianco dimostrano nuovamente a tutta la scena italiana che è indubbiamente possibile fare un disco incapsulabile in un alveo definito di generi senza per questo togliergli ampio respiro, un disco che possa disegnare scenari inediti partendo da una tavolozza preconfezionata. Proprio come fecero altri gruppi fondamentali prima di loro.
Caldi, evocativi, ambiziosi e sicuramente ruggenti dal vivo (non a caso hanno vinto l’edizione 2010 del MArteLive) i nostri pennuti amici non si fermeranno qui, anzi c’è da ben sperare che alzino il tiro. Noi li aspettiamo e intanto ci abboffiamo del loro casatiello, una pietanza non moderna, vero, ma che riescono a fare re-interpretando la tradizione e che forse, un domani, faranno anche meglio della “nonna”.
(Francesco De Paoli)