Finalmente il diavolo mi ha fatto una proposta che posso rifiutare: recensire il disco di Marco Parente. Ma non rifiuto, dopo cinque anni dal progetto “Neve Ridens” ho quasi dimenticato la voce di quel marziano che è il nostro napoletano. E da buon marziano, voce sparata in primo piano, spesso riverberata da altre voci, e strumenti in sottofondo, ma incisivamente bilanciati, in modo da non risultare avulsi dal contesto. Un contesto morbido e delicato, almeno nelle prime due tracce, “Il Diavolaccio”, ormai vecchio successo, e “La riproduzione dei fiori”, title-track che con la scusa della dolcezza infila un paio di concetti interessanti, per lasciare immediatamente spazio a “C’era una stessa volta”, dove viene fuori l’anima più rock di Marco Parente, quella più incazzata, antitetica alla precedente, in perenne contraddittorio con la sua essenza acustica, quella di “Sempre”, per intenderci. Quella che sotto placidi arpeggi di chitarra nasconde testi da tatuare sulla schiena, per poterceli ficcare in versione integrale. “Sempre” è indubbiamente il pezzo forte dell’album, anche perché “far sorgere il sole su un accordo maggiore” è una delle frasi più sensuali che io abbia facoltà di ricordare.
La differenza tra chi ce la fa, e chi resterà sempre nell’ombra è chiaramente intuibile in “La grande vacanza”. Il titolo mi fa venire immediatamente in mente un pezzo di un nuovo cantautore italiano, ambientato durante le vacanze estive, ma si sente lontano un miglio che la pasta di Parente non è neanche lontanamente assimilabile alle voci roche che urlano banalità su accordi maggiori ripetuti ad libitum. Che poi, alla fine, è questo il senso del lavoro di un musicista, distaccarsi sempre e comunque da qualcuno, e contribuire a creare un microcosmo a sé con le sue idee, in questo caso geniali, in un continuum di suoni e parole, giustificandosi dicendo “sto soltanto respirando, sto soltanto camminando”.
(Mario Mucedola)