Il post-rock compie vent’anni. Tanto è passato dacché gli adamitici Slint tolsero la costola Spiderland dal proprio petto e la gettarono nel fuoco nascente degli anni ’90. Venti anni sono sufficienti a un movimento o a un genere per crearsi un passato al quale tornare a guardare, sono un lasso di tempo abbastanza ampio da trasformare una rivoluzione in classico, da cristallizzare regole prima in fermento. Gli scozzesi Mogwai hanno percorso tre di questi quattro lustri, a partire dal lontano 1996, lo stesso anno in cui, con l’uscita di Millions Now Living Will Never Die dei Tortoise, si è iniziato a parlare di post-rock così come lo conosciamo noi ora. I Mogwai erano a tutti gli effetti la via europea al post-rock, dove la componente emozionale era preponderante, in contrapposizione al pragmatismo math-rock degli americani.
Dribblando, a ogni capitolo della loro discografia, il rischio ripetizione con pochi ma sostanziali scarti, senza però intaccare la propria cifra stilistica, la band di Glasgow approda al settimo album di studio, Hardcore Will Never Die, But You Will (titolo di geniale perentorietà). Il quale è una summa dell’arte Mogwai per quanto sinora espresso, quasi i cinque volessero raccogliere la sfida lanciata dal proprio passato e dalla responsabilità di essere tra i padri ancora viventi del post-rock. Il risultato è un’opera molto varia, forse il prodotto più diversificato licenziato dai glaswegiani. Dentro Hardcore… ci sono quasi tutte le carte che hanno reso riconoscibilissimo il suono della band scozzese; quasi, perché a questo giro non vi è infatti traccia dell’approccio pent-up anger delle prime prove, quei wall of sound pronti a esplodere da un momento all’altro. Invece ci sono, e in grande spolvero, gli epici crescendo di cui i Mogwai sono maestri indiscussi, imbastiti per accumulo e ispessimento di suoni e distorsioni, ciascuno all’insegna di una tensione emotiva vibrante ed empatica malgrado l’assenza di parole. Si va dunque da “Rano Pano”, che scala chiostre di monti rumorosi sulla spinta di un giro melodico incalzante, alla solennità ieratica e malinconica di “Death Rays” e “Too Raging to Cheer”; “Mexican Grand Prix” e “How to Be a Werewolf” emergono da movenze circolari di krauta memoria, sorrette da tastiere motorik sospese da qualche parte tra Can e Neu!; e se “You’re Lionel Ritchie” sale lenta attorno a un riff che si appesantisce piano fino a sonorità quasi sludge, “Letters to the Metro” è una struggente ballata tutta pianoforte e sospiri. Tendenze cinematiche trovano sfogo in “San Pedro”, colonna sonora perfetta per il quadro del boss finale di un videogame action, mentre i Mogwai riflessivi di Rock Action tornano nell’iniziale “White Noise”, che non porta a compimento la minaccia Slint dell’arpeggio introduttivo preferendo rimanere sospesa in notturni anfratti. Ritorna a far capolino anche la voce, seppur distorta dal vocoder: nella già citata “Mexican Grand Prix” e nella rovente “George Square Thatcher Death Party” (voglio il numero del loro pusher).
Che dire, niente di nuovo sotto al sole, ma nemmeno la spiacevole sensazione di vederli diventare epigoni di se stessi. Anzi, l’album regge alla prova di ripetuti ascolti, uscendone rafforzato nel valore. Non è un ritorno ai fasti del passato, ma siamo decisamente una spanna sopra a Mr Beast e The Hawk is Howling.
(Francesco Morstabilini)