Prendi un mercoledì sera. A patto che tu non sia studente e/o non vivi a Padova, le prospettive della serata si riducono ad un paio di alternative, nessuna delle quali non preveda una serie di sbadigli a cadenza regolare. Prendi appunto questo mercoledì sera, abbandona la scazzata stanchezza della media settimana lavorativa, sali in auto e dirigiti verso il Magazzino 47, storico centro sociale di Brescia, dove è stato trovato il rimedio: il Pop Club. Trasmissione radiofonica in diretta su Radio Onda D’Urto, in streaming su ctv Telestreet nonché concerto. Tutto al prezzo di uno. In questa fredda notte, il piccolo spazio in cui si esibiscono i due gruppi che si alternano, viene riscaldata dal fuoco di un camino, dai bicchieri di rosso, ma soprattutto dalla musica.
Il primo ad esibirsi è Gionata. Cantautore di Lugano, ingiustamente poco conosciuto al di qua del confine. Il suo stile è un misto fra pop e rock con notevoli tocchi di elettronica artigianale, rende il tutto assolutamente piacevole. Gionata presenta il suo nuovo album: In nove mosse uscito nel 2010 per Hansia Records. La prima impressione è di straniamento. Solitamente si esibisce solo, circondato da una serie di strani aggeggi che utilizza come strumenti. Oggi è circondato da strumenti veri (nel senso di classici) e da musicisti veri (nel senso esseri umani). Sarà il gruppo di spalla, penso fra me e me, con la vista offuscata dalla dimenticanza degli occhiali. Poi le mie orecchie si tendono e mi sembra proprio di sentire i primi accordi di “Happy boy”. Un grande “mah” pervade il mio cervello, accompagnato da una serie di domande ponenti sinteticamente lo stesso interrogativo: perché? Perché rinunciare ad un sound che lo aveva contraddistinto, che mi aveva fatto amare i suoi album precedenti? Perché lasciare quella antiquata quanto attraente strumentazione? Perché cambiare così brutalmente stile? Perché esibirsi nella consona formazione rock classica? Perché…
Decido di rimandare tutti i miei perché a data da definire, o più semplicemente a concerto terminato. Mi defilo, mi siedo e ascolto. A parte qualche problema di voce dovuto alle spie, il concerto procede in modo scorrevole. Vengono proposte praticamente tutte le canzoni del nuovo album: “Tu vali”, “Credo in Disney”, “Lola”, “Di più”, “Le cose facili”… mentre fra i pezzi vecchi eseguiti c’è spazio solo per “Ogni disco è destinato ad incantarsi” . Purtroppo per esigenze tecniche il concerto dura poco meno di un’ora. Mentre Gionata & soci iniziano a smontare, mi rimane in bocca quel senso di amarezza misto a quei succitati punti interrogativi, assieme a tanti altri che pervadono il mio (piccolo) cervello. Se non avessi conosciuto Gionata, se non avessi amato i suoi precedenti album (da Si può essere un’alba a Daytona, passando per Mi sono acceso) avrei apprezzato indubbiamente l’esibizione. Ma avermi tolto la possibilità di canticchiare èpocopoppocopoppocopop, è stato veramente crudele, sarà perché era dalla mattina che mi ronzava in testa insistentemente, cogliendomi impreparato ogniqualvolta i miei pensieri si fossero fermati; sarà perchè i ritmi immediati tutto sommato mi fanno impazzire, alla faccia dei ricercatori della perfezione compositoria.
Perplesso me ne esco a fumarmi una sigaretta, ecchittivedo? Gionata! Mi sarei mai fatto sfuggire l’occasione di chiarirmi alcuni perché?
Gionata, arrivi dopo due anni con un nuovo album In nove mosse. Com’è stato concepire questo nuovo lavoro?
Questo disco rispetto ai precedenti ha avuto una storia un po’ diversa: escludendo il primo del 2001 che era co-prodotto con Gianni Maroccolo, per gli altri album ho sempre optato per una auto produzione artistica. Per questo album ho voluto condividere la co-produzione con Mauro Capra. Per me è stato un percorso un po’ diverso, nel senso che quando produci un disco da solo ci sono tutti i vantaggi, come la massima libertà; però poi finisci col perdere di vista certi aspetti. Se hai qualcuno con cui confrontarti hai un altro punto di vista. Abbiamo condiviso tutte le scelte artistiche, anzi ho lasciato l’ultima parola al co-produttore in ogni caso.
Musicalmente il disco suona diverso dai precedenti, da Si può essere un’alba a Daytona. Nel tuo myspace nella parte genere c’è scritto indie rock pop. Quanto c’è di indie, quanto di rock e quanto di pop?
Sai il termine indie è sempre difficile da definire. C’è chi è indie per poter accedere al mainstream, c’è chi è indie per scelta. Direi 33% di indie, 33% di rock e 33% di pop. È un po’ diverso dal punto di vista del suono nel senso che il mix è più curato, le riprese dei suoni sono più accurate, il suono è più ricercato. Nei contenuti non lo definirei meno indie o meno rock o meno pop degli altri.
Io ti avevo visto tempo fa in Latteria Molloy a Brescia, eri solo e suonavi un’infinità di strumenti molto particolari, elettronici e artigianali. Perché hai deciso di passare ad una formazione rock più classica, chitarra, basso, batteria?
Avevo proprio una voglia di fisicità. Facendo musica hai sempre voglia di stimoli diversi. Sugli ultimi due dischi avevo sempre utilizzato formazioni ridotte, da solo appunto o in due con un violoncellista o con un chitarrista, dove i gadget, gli accessori e gli strumenti avevano una certa importanza. Per questo tour avevo voglia di ritornare alle origini e quindi con la formazione classica.
Il nuovo album In nove mosse è stato apprezzato in modo diverso dalla critica. C’è chi l’ha apprezzato, chi meno. Tu cosa pensi?
Penso che sia un’evoluzione del mio modo di fare musica. Quando fai un album, come quando scrivi un libro, dipingi un quadro, alla fine fai l’unica cosa che potevi fare in quel momento. Chi scrive la recensione ascolta il risultato finale. Io come in tutti i miei dischi ci metto tutto me stesso, un disco è qualcosa che ti deve cambiare, quando hai finito un disco non devi essere lo stesso di quando l’hai iniziato. Come ogni opera creativa deve essere un’esperienza. Alla fine io faccio gli unici dischi che posso o che riesco a fare.
Progetti futuri, live, video?
Stiamo organizzando un piccolo tour in Italia, il che non è facile quando fai musica originale. Poi sto pensando a due video, di Di più e di Credo in Disney. Poi esiste già un video di Tu vali, realizzato con un software sviluppato da due ricercatori svizzeri.
Rientro, mi accosto infreddolito al focolare (non pensate ad arcani simbolismi, il camino c’è realmente), mentre ha appena iniziato a suonare il secondo gruppo, i The Churchill Outfit, che teoricamente sarebbe dovuto essere di spalla a Gionata. Mi auto rassicuro pensando che per esigenze di orari di trasmissione il gruppo spalla sta dopo. Ne avevo già sentito parlare, benché alle mie orecchie fosse pervenuta soltanto mezza canzone. Amici di amici di amici di amici…(ho sentito dire che tramite sette gradi di amicizia, si possa conoscere l’intera popolazione mondiale…bah). Devo dire che già dalla prima canzone questi cinque ragazzotti m’incuriosivano. Rock psichedelico di un certo spessore, senza scadere nell’autoreferenziale. Li ascolto con attenzione e devo ammettere che canzone dopo canzone mi intrigano sempre più. Bella scoperta, mi dico, con un certo campanilismo. Un mix tra psichedelia, ritmato, con una spiccata vena melodica, grande cura nella preparazione dei pezzi e tanta passione. Mi riprometto di ascoltare dettagliatamente il loro ep, quando incombente il cantante saluta il pubblico.
Foto e Testo: Nicholas Fontana