Ho letto in un’intervista che alla richiesta di definire la musica dei suoi Engineers, Mark Peters ha così risposto: “vasta, alta, densa”. I più pigri potranno anche fermarsi qui, nel proseguo della recensione non farò altro che ampliare questo concetto, perchè è una delle rarissime volte in cui un musicista riesce con facilità disarmante a descrivere, visualizzare e dare un senso in pochissime parole al sound della propria band. E vista la rarità del caso, ho intenzione di sfruttare questo assist fino in fondo.
In Praise Of More esce a poco più di un anno dall’ottimo Three Fact Fader, un lasso di tempo molto breve che ha però fatto registrare un terremoto e conseguente assestamento all’interno del gruppo londinese. Oltre a registrare le dipartite di Dan McBean e Andrew Sweeney, c’è il passaggio di Mark Peters dal basso (ora a Daniel Land) alla chitarra e l’ingresso in pianta stabile nella line-up di Ulrich Strauss, che diventa a tutti gli effetti un membro degli Ingegneri dopo averli sempre e solo accompagnati live alle tastiere. Un vero e proprio ribaltone, che però sembra aver fatto trovare la quadratura del cerchio all’interno della band, che sforna un disco di livello, curato e dalle mille sfaccettature, come il prisma sulla copertina di The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, in assoluto il nome tutelare, la figura (non molto, a dire la verità) invisibile che osserva compiaciuta il cammino e la crescita di questi ennesima band che paga un tributo immenso alla storica band britannica. Spero di non avere fatto inorridire i fan dei Pink Floyd, quello che dico è che al di là delle innumerevoli definizioni che potremmo dare al sound degli Engineers (Dream-pop? Shoegaze? Alternative? Avanguardia? Space-rock?), questo altro non è un disco di rock psichedelico figlio del nostro tempo e di tutti i movimenti che il rock ha fatto negli ultimi 50 anni. Gli Engineers sanno giocare con l’atmosfera, sanno trasportarti e confonderti, fino a farti perdere razionalmente il contatto con il disco, ma allo stesso tempo si infiltrano sottopelle, nel subconscio, ricreando e cambiando ad ogni passaggio i contorni di questa onirica dimensione. Il disco scorre fluido, rimanendo ancorato saldamente agli elementi distintivi dei londinesi, e allo stesso tempo, in maniera quasi subliminale introduce qualche variante che rende questo viaggio ancora più piacevole. Pura psichedelia moderna in “What It’s Worth” (impossibile non pensare ai My Bloody Valentine) e “Las Vega” (Space -folk?), sapientemente alternate a brani più immediati e d’impatto come “Subtober”, “In Praise Of More” e “Press Rewind”, che godono maggiormente dell’apporto di batteria e chitarre. Splendide anche “Twenty Paces”, il pezzo più trasversalmente pop dell’album, e “To An Evergreen”, un ideale bignami di tutti gli elementi che caratterizzano lo stile attuale dei londinesi, ovvero la cura maniacale del suono, l’immancabile voce sdoppiata, chitarre dense e stratificate, il tutto a creare l’imprescindibile wall of sound che marchia a fuoco questo genere. La strumentale “Nach Hause”, con le sue poche e distanti note di pianoforte chiude questo In Praise Of More, un album che fluttua tra Air, Spiritualized, ultimi Radiohead, Tarwater, Notwist, primi Six By Seven e ovviamente My Bloody Valentine, un album dedicato, pensato e realizzato per chi ha necessità di farsi cullare da una delle poche, pochissime band intelligenti del panorama moderno… d’altronde stiamo parlando di Ingegneri, non dimenticatelo.
(Andrea Gnani)