Mi è stato detto che questo è il nuovo disco di Bright Eyes, ma sfortunatamente premo play e non ci trovo Conor. Ci trovo qualcun altro, un tizio dalla voce catarrosa (Denny Brewer, come ho imparato in seguito) che attacca con un sermone apocalittico sul genere umano ed il progresso, e nel frattempo io penso che ci deve essere stato un errore, che forse ho il disco sbagliato e che… ah! Ecco una voce familiare, ecco Conor! Finalmente è arrivato: questi due minuti e mezzo, sommati ai quasi quattro anni in cui ha tenuto in congelatore la sua band, sono sembrati una eternità.
Non un semplice ritorno ma qualcosa di più, qualcosa di davvero speciale, perché questa è l’ultima volta a nome Bright Eyes. Basta così, la ditta sta per chiudere, ha detto Conor Oberst.
Liberi come me di non credergli ma l’ex-ragazzo prodigio del Nebraska sostiene che sia ora di chiudere un ciclo, e già che ci siamo dice anche che è ora di farla finita coi vecchi suoni. L’intenzione di Oberst stavolta pare essere quella di scrivere qualcosa di nuovo, che non abbia radici nell’America profonda da cui lui proviene, scrivere qualcosa che suoni meno folk e per nulla country, semmai di country si sia potuto parlare, e che in mancanza di una definizione migliore e meno ambigua si possa catalogare alla voce rock dei giorni nostri.
Sarà lecito o no aspettarsi qualcosa di grande? Qualcosa destinato a rimanere nel lettore mp3 per mesi e mesi ed essere riascoltato ciclicamente ancora oggi come succede con “Fevers and Mirrors” e con “I’m Wide Awake, it’s Morning”? Si che sarà lecito, ma purtroppo si capisce in fretta che le cose non andranno così, perché considerate le aspettative i primi ascolti di questo nuovo spiazzante album intitolato The People’s Key non possono convincere del tutto. Si ok, sempre meglio di Cassadaga ma non è che ci volesse tanto.
Certo rimane ancora un piacere andare alla scoperta dei testi visionari e colti di Oberst, stavolta infarciti di citazioni bibliche e con intenti para-sacerdotali, ma oggi c’è la metà del gusto perché per ogni momento che ci fa stringere i pugni e ci fa venire voglia di urlare ci si ritrova ad ascoltare minuti e minuti di musica abbastanza insignificante.
A dire il vero, già nel discusso “Digital Ash in a Digital Urn” Bright Eyes aveva accantonato le chitarre acustiche per confrontarsi con mondi musicali più distanti dal suo, ma qua il suono è pulito e pettinato come mai finora. In “The People’s Key” ci si trovano tastiere e chitarrine modaiole che strizzano l’occhio a un certo rock un po’ fighetto, ovvero non proprio il materiale preferito dal gruppo che ricordavo.
“Shell Games”, “Jejune Stars” o ancora “Triple Spiral” sono ottimi esempi di questa trasformazione: divertenti e trascinanti brani power-pop che farebbero la loro porca figura nel repertorio di Spoon e New Pornographers, tanto per dimostrare che il talento compositivo del ragazzo non è in dubbio, ma che finiscono per prendere il sopravvento sull’indole tormentata e inquieta di Oberst, la stessa che si rifletteva sulle sue canzoni facendoli fare un salto di qualità (alzi la mano chi non è mai stato sull’orlo di piangere ascoltando “Something Vague”!). Inoltre “The People’s Key” si ferma qualche passo prima rispetto ai suoi predecessori, non solo perché i dolori del giovane Oberst rimangono spesso sepolti sotto ai synth, ma anche perché perfino laddove le atmosfere del disco si fanno più intimiste e consuete, come in “The Ladder Song” con solo pianoforte e voce, il risultato che si ottiene è scialbo e poco ispirato, al limite dell’anonimo.
“The People’s Key” non ha nulla di davvero sbagliato e non si può certo dire che sia un brutto disco, più semplicemente il suo difetto è quello di non sembrare un prodotto di Bright Eyes, e l’effetto che fa è straniante al punto che resta in secondo piano tutto quel che di buono c’è nel disco. E si vabbè, magari ascolto dopo ascolto ci affezioneremo anche a queste canzoni ma comunque, in attesa che prima o poi a Conor venga voglia di tornare per lasciare ai fan di Bright Eyes un ricordo migliore di questo, non si potrà fare a meno di pensare che il miglior talento della sua generazione questa volta si sia dimostrato “soltanto” uno bravo come ce ne sono tanti.
(Alberto Mazzanti)