Rotolando verso sud, lungo i meridiani di sangue che intersecano il confine tra Stati Uniti e Messico, dalle parti di Mexicali e Tucson, Il Santo Niente diventa El Santo Nada. I gringo della cricca sono sempre gli stessi, è la lingua a cambiare. Rifornitisi di viveri presso l’ultimo baluardo di frontiera chiamato Calexico, Umberto Palazzo e sodali si avventurano tra i brulli territori dipinti da Sergio Leone nei suoi spaghetti western.
La luna non è più viola, si tinge di rosso, come il sangue, come le albe lunari nei miasmi del deserto. I coyote ascoltano da lontano i twang delle telecaster che penetrano il denso silenzio della notte. Tuco è un luogo di ritrovo per desperados, per suonatori mariachi con sombrero e mantilla, per chi mischia peyote e tequila alla faccia dei neuroni morenti. Tuco è Tuco Benedicto Pacífico Juan María Ramírez, il Brutto de Il Buono, il Brutto e il Cattivo di Sergio Leone, scaturigine dell’immaginario del disco. Ci si può interrogare sulla necessità di un disco di frontiera, quando già Calexico e Ronin hanno tracciato quasi tutti i sentieri da percorrere. O si può semplicemente ascoltare Tuco. Senza faziosi perché, sebbene ne basti uno: l’eterna lotta tra nord e sud, trasposta in note. Qui è il fascino a vincere, non l’originalità, e Tuco ne ha da vendere. A partire dalla title track, figlia di quel languore adrenalinico che precede l’estrazione delle pistole all’inizio di C’era una volta il West, quando Charles “Armonica” Bronson fronteggia i sicari mandati a ucciderlo. Tutto l’album è un racconto senza parole, puramente strumentale, con un suo pre-verbale svolgimento drammaturgico: come un film per ciechi. In “Gallinas Y Lagartos” sembra di vedere file di carovane allungarsi nel deserto tra bufali e infuocati tramonti, mentre le ragazze si fanno coraggio ballando al ritmo di “Las Nuevas Fashion Chicas”, percorsa da echi surf tarantiniani. Un taglio netto ci conduce all’eroe e al suo viaggio, l’uomo solo nel deserto, preda di una fata morgana morriconiana chiamata “Ilusion”: non sapremo mai se l’oasi a cui volge il pellegrino sia vera o falsa. Montaggio parallelo: da qualche parte c’è lui, l’antagonista, “El Perdido”, che arriva, ingrugnito sul suo cavallo che avanza muso a terra. La vittoria del buono sul cattivo è descritta in “Viva la Revolucion”, una sorta di marcia mariachi da Quarto stato western. Infine, “Esto No Es El Final”, pigra ballata sui titoli di coda che scorrono sulle quinte di un tramonto gigantesco. La silhouette di un cavaliere si allontana solitaria, si sfoca nel sole morente; il campo dell’inquadratura si allarga a comprendere i compagni (o gli avversari?) che lo seguono distanti. L’ultimo riverbero di chitarra si spegne, la pellicola è finita. Ci si sveglia da un sogno, si esce dal cinema, si avrebbe voglia di parlarne agli amici, suggerirgli di ascoltarsi Tuco. Ma Tuco, fisicamente, non esiste. Non si trova nei negozi e non è dato sapere se e quando vi farà la sua comparsa. Per godersi questo gioiello bisogna richiederlo sul sito del gruppo. Fatelo, Cormac McCarthy sarebbe orgoglioso di voi.
(Francesco Morstabilini)
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