Ancora cinque minuti. Solo cinque. È la frase che chiunque ha sussurrato dal letto in mattinate troppo pigre per staccarsi dal letto. Paradossalmente è la stessa cosa che ho detto anch’io, per non staccarmi da questo disco. I DeVotchKa, il cui nome parte dal russo (де́вочка) che significa “ragazza”, hanno alle spalle quasi quindici anni di carriera, quindici anni nei quali hanno mischiato musica gitana, greca, mariachi, slava e anche il bolero con le radici più profonde del folk americano. Un esperimento che li ha portati ad avere un grande successo in america, tanto da fare da colonna sonora a film di successo come “Little Miss Sunshine”, ad essere l’opening act del concerto dei Muse allo Stade de France a Parigi, suonando davanti ad 80.000 persone; lo stesso successo è il motivo per il quale in Italia sono sconosciuti.
Ascoltando questo disco mi viene in mente un solo paragone, Trespassers dei Kashmir, album dell’anno scorso. A proposito, procuratevelo. Il paragone viene da sé perché quel disco, per chi scrive, è stato indubbiamente uno dei Top 10 del 2010, solo che per chissà quale ragione in Italia non vengono distribuiti, e tocca procurarseli all’estero. Forse sono troppo bravi, o troppo poco banali. Fatto sta che quando (se) vedrò DeVotchKa nei negozi, penso che comincerò a commuovermi. Ma passiamo all’album, a 100 lovers, a questi 42 minuti di goduria. Si comincia con “The Alley”, e il suo contrasto tra una sezione ritmica ostinata ed una voce, quella di Nick Urata che si alza noncurante del resto, come un Morrissey del nuovo millennio, e trascina dietro di sé quei violini che suonati allo stesso modo in un qualunque altro disco, sarebbero stati patetici. In questo caso no, assolutamente no. Sono meravigliosi e sortiscono lo stesso effetto degli archi che chiudono “No Time No Space” di Battiato, quella sorniona meraviglia acustica che alla fine ti fa sorridere. Il discorso si ripropone parzialmente per “All the sand in all the sea”, dove però il tutto si fa più ipnotico, con quell’incedere tipicamente latino nella struttura dei battere/levare, ma anche tremendamente sperimentale se si pensa ai suoni che le chitarre piene di chorus e riverbero riescono a tirar fuori. “100 other lovers” è il pezzo che, con le dovute modifiche, dà il titolo all’album. È composto da due parti separate, una strofa molto biascicata e morbida, contrastata da un ritornello a tratti quasi acido, per poi tornare alla dolcezza della strofa, con quei suonini quasi da film Disney, delicati e cerebrali. Da paura, non ci sono altre espressioni per definirla. Con “The Common Good” siamo in Medioriente, probabilmente Iraq, sicuramente laddove il fascino della mesjed è ancora intatto, e i DeVotchKa ci trascinano tra i mercati per poi ricordarci che nonostante tutto, il ritornello ha classica apertura lirica americana, col rullante in controtempo anche con se stesso. Ma ci spostiamo in tutt’altra parte del mondo con “The Man From San Sebastián”, il riferimento è alla città spagnola, ma la musica è ancora più ad ovest: parliamo di un tango meravigliosamente concreto, non artefatto né contaminato come quello dei Gotan Project, vivo e vitale nei suoi tre minuti e mezzo di esplosione. “Exhaustible” è invece il pezzo più scanzonato dell’intero disco, con una melodia che, se cantata da Thom Yorke sarebbe diventata una hit planetaria, e con un ritornello composto solamente dal fischiettare di Nick, che già dal secondo ascolto comincia ad accompagnarti dappertutto, soprattutto in queste mattinate libere e soleggiate. Ma nel disco c’è anche spazio per il ritmo mariachi di “Bad Luck Heels”, con quel coretto lirico che un po’ricorda gli ipotetici probabili sviluppi di “Natale allo zenzero” di Elio e le Storie Tese, o ancora un “tango sambato” come per “Ruthless”, per concludersi con “Contrabanda” che è quasi una lambada ancora più sensuale, con quel bandoneón infuocato, e “Sunshine”, che a dispetto del nome porta in sé il senso di decadenza, i titoli di coda, il finale preannunciato, quella voglia di chiedere ulteriori cinque minuti confidando in qualche traccia bonus. Che però non c’è, e allora l’unica soluzione per soddisfare la voglia di cinque minuti è far ripartire il disco, e perdersi in altri quaranta minuti d’oblio. In sostanza, ascoltandolo più volte, le sensazioni sono molteplici, ma ne emerge soprattutto una: quella di trovarsi di fronte a un album che indubbiamente è il lavoro migliore della band finora, ma con ogni probabilità, diventerà immediatamente anche uno dei dischi migliori del decennio… quello appena iniziato.
(Mario Mucedola)