Non sembra un disco italiano, Black Rainbow, ma purtroppo o per fortuna lo è. Purtroppo, perché rischia di non avere la visibilità internazionale che merita – nonostante i pregevolissimi sforzi de La Tempesta, che con il suo ramo International stampa dischi dal respiro troppo ampio per essere racchiuso negli angusti confini nazionali – e rimanere un album oriundo; per fortuna, perché abbiamo proprio bisogno di dischi così, di musica che ci faccia sentire cerebralmente vivi nonostante i tempi funesti che stiamo vivendo. E se il buongiorno si vede dal mattino, il 2011 si prospetta anno mirabilis della musica nazionale: Verdena, Cristina Donà e, ora, i bresciani Aucan ci dimostrano che spiagge deturpate e centrali a turbogas non ci hanno tolto la voglia di ascoltare e fare musica che non se la canti e se la suoni guardandosi la punta delle scarpe.
È un disco secessionista Black Rainbow, ridefinisce i confini musicali con la potenza della musica e converte Brescia da capoluogo di provincia italiano a enclave conteso dalla City of Bristol, da Sheffield, Detroit, Chicago. Basta Battles, basta Storm & Stress, numi tutelari del disco precedente, ora gli Aucan guardano a un’altra Chicago. Goodbye math-rock, welcome to the rave party. Un rave party da apocalisse, dove dei Massive Attack troppo incazzati con sé stessi e col trip-hop allungano i loro tentacoli sulle scorie di un big bang elettronico per afferrarne tutte le future declinazioni. Il trio bresciano toglie le dita dalle corde e le appoggia sui synth e alle geometrie degli accordi si sostituisce il fluire dei suoni. Sui quali stare fermi è impossibile.
È un disco caleidoscopico Black Rainbow, dove ogni tassello trova il suo alveo naturale e si esplica nella mente dei demiurghi Aucan. Parte “Blurred” e sono i suddetti Massive Attack mandati in collisione con un orgasmo di Angela Kinczly. “Heartless” ci porta in 4 minuti sull’altra sponda dell’Atlantico per deporre i TV on the Radio dal loro trono. “Red Minoga” si finge ambient breakbeat per poi trasformarsi in un’affannosa corsa al termine della notte. Il tempo di asciugarsi il sudore e “Sound Pressure Level” ci proietta già da un’altra parte, sul cadavere sciolto nell’acido della house più tamarra. Dall’oscura marcia di “Storm” devo ancora trovare la via d’uscita, ma prima devo acciuffare DJ Shadow che si è perso pure lui. Per fortuna arriva “Embarque”, niente più che un intermezzo utile ad ordinare un gin-tonic per dissetarsi. Poi, tra uno stop-and-go techno (“Save Yourself”) e una tribal ambient durante la quale continui a guardarti alle spalle in una strada buia (“In a Land”), si arriva a una doppietta finale da cardiopalma: “Away!”, un dubstep che vivaddio nessun esorcista potrebbe mai scacciare dal corpo di questo album, e “Black Rainbow”, dove le chitarre si tolgono la polvere per creare insieme ai synth una camera di depressurizzazione in cui sfumare piano piano a nero verso il giusto riposo post-allnight-party.
È un disco ambizioso Black Rainbow. Oscuro ma mai opprimente, geniale senza essere spocchioso, compatto come un prisma dalle migliaia di rifrazioni. Erano una promessa gli Aucan e l’hanno mantenuta, sfornando un album che nella scala di voti del mio professore di filosofia del liceo sarebbe da 8, ché 10 lo si dà solo a Dio.
(Francesco Morstabilini)