Quante volte avete visto questa scena sul piccolo/grande schermo? Siamo negli USA, tra le praterie e le highways, il sole a picco, in un piccolo locale, dove una cameriera con la camicia a quadri annodata sopra l’ombelico (credo che Daisy di Hazzard abbia creato un archetipo di questo personaggio insostituibile per i trentenni di oggi) serve birra ai tavoli, e relegata in un angolo c’è una band che suona. Suonano incuranti di tutto, risse tra ubriachi, lanci di bottiglie e sedie sfasciate sulla schiena del malcapitato di turno. Avete presente? Tutti noi abbiamo visto questa scena centinaia di volte, e se lo volete sapere la band che potrebbe fare da colonna sonora a quest’immagine è proprio questa.
Johnny Selfish & The Worried Men Band sono milanesi solo sulla carta d’identità, ma hanno sangue, cuore e anima marchiati a fuoco dalla bandiera a stelle e strisce. Un disco che torna alle radici del suono americano, al tempo dei grandi padri fondatori del rock, di gente come Hank Williams, Woody Guthrie, e gli immancabili Bob Dylan e Johnny Cash. Proprio il leggendario uomo in nero è forse l’influenza maggiormente riconoscibile tra i solchi di questo disco, un concentrato di musica popolare, country, folk, bluegrass e un’anima indiscutibilmente blues a fare da naturale collante, il tutto arricchito da un’attitudine che mi sento di ricondurre al punk. “Song For The Working Class” è un classico pezzo folk come li scriveva mr. Zimmermann nei sixties, ovvero un inno da strada dedicato al popolo, “On Fire” si apre con un riff in odore di “Desire” (non a caso gli U2 “americani”di Rattle And Hum), ed è uno scontro folk-blues micidiale dall’atmosfera grandiosa, con la voce ruvida e vissuta di Johnny Selfish a guidare la band in una cavalcata western a perdifiato. L’ombra del Man In Black si allunga su gran parte dell’album, inevitabile non sentire l’omaggio alla storica “Ring Of Fire” ascoltando “Burn, Burn, Burn” (e non sto parlando solo del titolo), oppure tutti i pezzi cantati insieme a Veronica Sbergia, dalla struggente ballata “Dignity” al country di “I Got Two”, ognuno di loro riporta alla mente i duetti tra Mr. Cash e sua moglie June. Rimangono nel cuore i suoni di frontiera della strumentale “Self-Portrait (Of A Walking Dead)”, la rilettura del classico “Worried Man Blues”, che, dato il titolo si candida ad essere il vero manifesto della band, che sapientemente mette in chiusura di album la splendida “Deep End” (occhio anche alla bellissima ghost-track). Tracurabile, anche se coraggiosa la cover di “About A Girl” (dei Nirvana ndr) in versione western, probabilmente nata come entertainment e nulla più; è uno di quei pochi casi in cui un pezzo in meno farebbe alzare il voto finale. Comunque è un unico, piccolo neo di un bel disco, volutamente suonato alla vecchia maniera, irresistibilmente fuori moda, anche se il successo di band moderne come Plants And Animals, Mumford & Sons e Fleet Foxes sta velocemente riportando in voga questo nobile genere che i più giovani tendono a snobbare.
Consiglio vivamente a chi è cresciuto con questo sound, o a chi ci si vuole avvicinare, di ascoltare questo Commited, un vero e proprio percorso alle radici della musica americana, suonato con stile, passione e grande sincerità, perché solo chi appartiene alla working class, può scrivere una canzone per la working class che piaccia alla working class.
(Andrea Gnani)
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