Lo dico da subito, prima che parta il “dagli all’untore” che c’è stato in occasione della recensione (sul nostra pagina di facebook, ndr): non riesco a dare una valutazione definitiva al concerto. Non so dire “bello” o “brutto”, anche se sono molto più orientato verso la seconda. Mi limiterò ad una semi-cronaca di quanto ho visto.
Ore 20, di un normalissimo mercoledì.
Arrivo al Circolo in scioltezza, convinto di non trovare poi così tanta gente, malgrado sapessi del sold-out. È capitato già in altre occasioni di assistere a concerti da “tutto esaurito” in quel posto, ma mai avrei immaginato che la voglia di vedere i Verdena che tornano a calcare le scene fosse così forte da creare una coda che occupa totalmente l’ingresso al cortile del Circolo, e anche la rientranza antistante il portone principale. Alle mie spalle una presenza insolita ed inquietante: il tipo con le magliette tarocche. Non ne vedevo dai tempi dei Muse a Milano, e di solito li ho incrociati solo in occasioni di live prepotenti. Quindi, quel che rimane della matematica studiata alle elementari mi fa applicare il principio della proprietà transitiva: vedrò un live prepotente.
Ore 20:35, di un normalissimo mercoledì.
Smaltita la folla dei transennisti, entro nel locale indeciso se buttarmi nella folla o assistere al tutto da una posizione di dominio assoluta. Ovviamente scelgo la seconda, non mi sento sicuro e nel dubbio preferisco la comodità.
Ore 21:15, di un normalissimo mercoledì.
Di fianco a me viene a sedersi un matusa in tutto e per tutto identico a Brian Ritchie, parlava anche in inglese. Stavo per emozionarmi ed abbracciarlo, quando la tipa che era con lui lo chiama “Jeff” e puff! Sparisce il momentaneo slancio di benevolenza verso l’umanità.
Ore 21:40, di un normalissimo mercoledì.
Si spengono le luci e finalmente il Circolo degli Artisti si riempie degli Artisti. Sono in quattro, e il quarto elemento somiglia in tutto e per tutto a Fidel. La formazione è così schierata. Sulla sinistra del palco Fidel, accanto Roberta, rossa da paura, accompagnata da un Gibson EB-3; al centro, un po’ indietro, diremmo sulla trequarti difensiva, Luca, che per comodità chiameremo “Cugino It”, completamente avvolto da una batteria imponente, ai lati della quale si ergono dei piatti assurdi, creati per fare casino, e sulla destra Alberto, momentaneamente defilato per cominciare il concerto alle tastiere. Si spengono le luci e, come prevedibile, si parte bene con “Scegli me”, che si chiude tra gli applausi e le loro facce vistosamente emozionate per essersi impossessati nuovamente di quello che è il loro habitat naturale: il palco. Si prosegue praticamente senza sosta, ed inanellano nell’ordine “Il nulla di O” “È solo lunedì” “Nuova Luce”, quasi a volersele togliere di mezzo, data anche la reazione del pubblico, parzialmente impreparato, parzialmente sorpreso. Chi, come me, si aspettava un inizio con un tiro della Madonna, ha evidentemente sbagliato concerto. Il Ferrari decide che per ora non ha più bisogno del piano, prende la chitarra e comincia ad introdurre uno di quei pezzi che mi fanno saltare giù dalle scale, per correre a buttarmi tra la folla, in attesa di sentire le vibrazioni delle persone intorno a me impadronirsi della storia della serata e cullarmi. Era “Il caos strisciante”, oltre ad essere uno dei pezzi che preferisco dei tre bergamaschi. Subito dopo c’è “Lui gareggia”, ma lo capirò solo una volta tornato a casa, quando riascoltando quel pezzo capirò di averlo già sentito. Il boato del pubblico ritorna nel momento in cui comincia “17 tir nel cortile”, traccia nona di quel gioiellino mai abbastanza acclamato che è stato Il suicidio del samurai,coincidenza? Forse. Ma “ora puoi, il fisico ce l’hai per fare la rivoluzione che aspetto”. Queste parole accendono un socialista deluso come me, ed introducono “Miglioramento”, e ti penso, ti penso forte perché so che vorresti essere qui a gridarne le parole. Indietreggio e mi godo “Per Sbaglio”, rivalutando le impressioni negative che avevo avuto nell’ascolto su disco. Non mi piace uguale, però “non mi piace di meno”. Poi c’è “Caños” e torno diciassettenne, facendomi trascinare dall’ipnotico “iiiiiiiiiiiiiii” cantato da Alberto Ferrari e dalle movenze di Roberta, vulcanica ed esplosiva regina del palco del Circolo degli Artisti. Il pubblico si scatena, e l’entusiasmo dura durante “Loniterp”, uno dei pezzi più immediati di Wow, probabilmente anche perché inserito all’inizio del lavoro, e quindi uno dei pezzi ascoltati più di frequente. Ma una tra le mie preferite del disco nuovo è di sicuro “Attonito”, traccia che apre il secondo disco, e mi viene servita immediatamente, tra le mie urla ed il silenzio delle persone che mi stanno attorno. Mi sento fuori luogo, ed indietreggio fino al banco mixer, dal quale però riesco nuovamente a dominare il Circolo nel suo complesso, e ad accorgermi che quando parte “Castelli in aria” ha sul pubblico lo stesso effetto di quando parte “YYZ” dei Rush prima dei concerti, ovvero un annoiato “che palle!”. Qualche applauso all’attacco di “Razzi Arpia Inferno e Fiamme”, durante la quale mi accorgo dolorosamente di aver sbagliato. Il testo dice effettivamente “mi acciglierò”, non “ciglierò” (vedi recensione, ndr), e sostanzialmente l’esecuzione è buona, pulita e precisa, supportata da ottime qualità dei singoli componenti del gruppo e da un mood rilassato. Falsa partenza su “Non prendere l’acme, “Eugenio” : la spinta mi sla… e impazzisce la chitarra del Ferrari, in un tripudio di effetti Larsen. Si riprende, e sul finale scassone, il tecnico delle luci decide di trasformare il Circolo degli Artisti nel Papeete, adottando un gioco di luci a prova di epilettico. Mi aspettavo che da un momento all’altro saltasse fuori Timo Maas, o gente del genere. “Ovunque” e le grida che la accompagnano, dimostrano ulteriormente che “Wow” viene accolto freddamente, sensazione che continua a rafforzarsi quando alla fine della canzone Alberto con uno scatto imbraccia il basso di Roberta, che passa alle tastiere e libera Fidel sulla fascia che si aggiusta l’acustica e serve l’assist per “Badea Blues” in una versione più “da spiaggia” rispetto a quella sul disco. Il preset di oboe (probabilmente) della tastiera si infila immediatamente in testa e contribuisce a farmi apprezzare un pezzo che, onestamente, avevo catalogato forse troppo in fretta tra i “ma anche no” di “Wow”. Ristabilita la strumentazione ordinaria, i ragazzi si guardano, si fanno un cenno
d’intesa e comincia “Muori Delay”. “Muori Delay” è uno di quei pezzi che mi ha preso da subito, ma ai quali non ho mai prestato estrema attenzione, eppure nella penuria di vecchie glorie è stata una boccata d’ossigeno, oltre che un momento di sano divertimento, quando Brian Ritchie, il matusa di prima si è alzato, si è tolto il maglione giallo crema, tipica fantasia da tera-old prepotentemente rientrata nel giro indie e ha cominciato un headbanging sfrenato, che ho visto solo nel live dei Pantera al Monsters Of Rock di Mosca nel ’90. Ebbene, quell’agitare violento di una folta chioma bianca, oltre che provocare tanta invidia per la mia tendenza all’ipotricosi, è stato uno dei momenti che terrò stretto nel mio cuoricione, almeno fino alla settimana prossima. Poi finisce l’autonomia mnemonica, e con essa si esaurisce il limite di sopportazione, per essermi sorbito “Sorriso in spiaggia” I e II. Se ne vanno. Fuori, fuori, fuori e tornano. Alberto si siede nuovamente alle tastiere e suonano “Rossella roll over”, che live rende decisamente bene, ma gli applausi che seguono questo pezzo sono stimati attorno al 2% di quelli che seguiranno la fine di “Logorrea”. Vecchio batte nuovo, si potrebbe pensare, e a confermarlo arriva proprio il leader dei bergamaschi che, mentre scorda la chitarra, aggiunge seccato “Vediamo se vi strappiamo un applauso almeno con questa”. Parte “Don Calisto” e, a fine concerto, la gente si scatena, pure Jeff-Brian Ritchie torna ad alzarsi e a gridare “Wooooo!” come un ossesso, ma è troppo bello per essere vero e infatti quello che sembra il suono pulito di “Luna” non è altro che un arpeggio buttato lì alla meno peggio per introdurre “Le scarpe volanti”, pezzo col quale si chiudono queste due ore di musica, e che nonostante i feedback finali, quei simpatici effetti noise che auto-impari appena compri un distorsore per chitarra e che ti torneranno utili mille e mille volte suonando, fanno uscire dal Circolo con due pensieri: datemi i Verdena che conoscevo. Datemi una birra.
Ore 23:45, di un normalissimo mercoledì.
Niente birra, niente “Phantastica”, niente “Valvonauta”, niente “Dentro Sharon”, niente “Elefante”. È la vita che accade, è la cura del tempo, è una grande possibilità. Il tempo è tanto generoso quanto stupidamente ostile, eppure sarà l’unica cosa che potrà dirci con certezza se quello che ho visto è stato un concerto “numero zero” un po’ troppo sentito, o il primo di una lunga serie di… numeri zero.
(Mario Mucedola)
Foto: Luca Carlino