Quattro anni fa muoiono i Verdena. Si spengono circondati dai cari, dopo lunghe sofferenze, con un grido di dolore ruvido, lungo 15 tracce. Il requiem come saluto finale, Requiem come canto del cigno. Solo che poi i soldi per la droga finiscono, e il cigno risorge dalle proprie ceneri, ancora più bello ed elegante di prima. Wow non è un disco bello, non c’è niente di bello nelle dissonanze paradossali intervallate da sprazzi pseudoriflessivi. Ma sono i Verdena, chi vuole atteggiarsi può ascoltare altro.
Si comincia dal primo disco, e si parte “morbidi”, con una b-side dei Coldplay, “Scegli Me”, composta da un piano sul quale si svolge bene o male tutta la trama del pezzo. “Loniterp” è invece già più interessante e decisamente più accattivante, in quanto coniuga le chitarre leggermente scordate con tutti gli standard del gruppo di Alberto Ferrari: testi assurdi, bassi violenti e l’inaspettato, che in questo caso si concretizza in un intramezzo a più voci, un “a capella” nel bel mezzo del pezzo. Per sbaglio premo “skip” e “Per sbaglio” mi accoglie. Le concedo due ascolti, non convince. Quando passerò a “Mi coltivo” mi chiederò perché ho perso tempo ascoltando il pezzo precedente, diciamo che è un mestile di maggio in blu appuntito spettrale. Sono questi Verdena quelli che quattro anni fa sfondarono ogni reticenza di critica e pubblico, quelli che portarono “Requiem” fino al dodicesimo posto nella classifica Fimi-Nielsen, sono questi i Verdena che in “Mi coltivo” riprendono il discorso più viscerale cominciato nel precedente disco. “Razzi Arpia Inferno e Fiamme”, il primo singolo, non può non piacere, categoricamente. È un pezzo ben lavorato, registrato malissimo, ma ben lavorato, che ti lascia due interrogativi, uno sulla direzione che assumerà il disco, dato che ogni traccia è diversissima dalle altre; il secondo interrogativo, verte molto più pragmaticamente sulla sintassi. Cosa cazzo significa “ciglierò”? Sorgono alcuni dubbi sull’affermazione contenuta in “Miglioramento”: il fisico ce l’ho, per fare la rivoluzione. Molti dubbi. Ma il pezzo contiene delle aperture melodiche inaspettate, con quella batteria insistente che li rende catalogabili tra gli Editors e i White Lies, ma con le chitarre più pesanti. Che confusione. “Il nulla di O” è un altro pezzo-bomba, che mostra quanto importante sia stato per i tre bergamaschi l’utilizzo delle tastiere nel disco, utilizzo che ha permesso di imprimere una svolta sperimentale nella scrittura dei pezzi, con repentini cambiamenti di ritmo e tempo, quasi come se le impronte prog delle influenze musicali dei ragazzi siano emerse tutte ad un tratto, e si siano riversate al massimo del loro splendore tra “Il nulla di O” e “Lui gareggia”. Ve li ricordate i Rondò Veneziano, quelli che iniziavano ogni santo pezzo con un noiosissimo synth barocco? Ecco, se togliete il preset “clavicembalo” e ci mettete, che ne so, “suoni pazzi”, avrete l’intro di “Le scarpe volanti”, che ti prende e ti porta in un mondo fatto di recite di terza media, con le diamoniche stonate e l’impianto audio sempre al di sotto della potenza necessaria. Già, perché come (quasi) sempre, i dischi dei Verdena sono sorprendenti, innovativi, riflessivi, magistrali, salcazzocosa, ma soprattutto sono registrati male. Malissimo. Roba che il “Sussidiario illustrato della gioventù” dei Baustelle era una figata in confronto. Stiamo quasi per archiviare il primo disco, quando appare in volo una dolcissima nenia che, al pari della piuma di Forrest Gump, scende lieve fin sopra la parte di cervello destinata a decifrare gli impulsi sonori. È “Castelli in Aria”. Andavo blaterando, qualche riga fa, di influenze prog nei fratelli Ferrari e in Roberta. Scorrendo le tracce del disco, si arriva a “Sorriso in spiaggia”, diviso in due parti (ultimamente sembra che nel mondo indie se non ce lo metti sei veramente l’ultimo degli stronzi) e composto di pt.1, completa e viva, senza angoscia né pesantezza. La pt.2 invece è più cupa e riflessiva, quasi a diventare la pt.2 di “Sotto prescrizione del dott.Huxley”, ultima traccia del già citato “Requiem”.
Il cd2 si apre con “Attonito”, e benché mia sorella di 15 anni mi abbia spiegato che il “kit autorico” è quello che lei usa per ricostruire le unghie smangiucchiate dal nervoso, quello che lascia davvero attoniti è il rimando al noto social network ideato da Mark Zuckenberg, proprio in apertura: “Sarai così serio/suoni su Facebook/come un’icona vive dietro di te”, a rendere una lucida fotografia dell’appannamento generale che ha prodotto lo strumento che invece avrebbe dovuto renderci liberi. “È solo lunedì” si arrampica su una costruzione tanto inusuale quanto ipnotica, sembrano risorti i Rush più grezzi. “Tu e me” condensa in un minuto e cinquantacinque secondi ciò che “Angie” e “Trovami un modo semplice per uscire” non erano riuscite ad esprimere: Battiato, calma, tranquillità. “Badea Blues”, per quanto rimandi tramite un accenno a “Don Calisto” non ha né la forza né la capacità catalizzatrice di quel pezzo, rivelandosi un pezzo vistosamente buttato lì per far numero. Decisamente più prolifico risulta l’ascolto di “Nuova Luce”, sebbene esso risulti una versione poco più che dolcificata di pezzi che ormai rappresentano la storia dei Verdena, per quanto – nota assolutamente a favore per chi ascolta – corredato da un assolo di chitarre e tastiere che ricordano il Paul Gilbert più scarso a cavallo del periodo 2005-2008. “Grattacielo” rinuncia prematuramente e forse immeritatamente ad ogni progetto riguardante l’icarica idea di librarsi nell’aria, per rinchiudersi in una specie di “Caños” più maturo, ma non sufficientemente rabbioso per ripetere l’esperienza sensoriale di quel pezzo. Stendiamo un velo pietoso su “A Cappello” e precipitiamoci su quel fottuto capolavoro che è “Rossella Roll Over”, con l’impietosa citazione di Obladì Obladà, che quasi mi fa venir voglia di scendere per strada ad urlare che “Evviva, finalmente qualcuno ha le palle di storpiare i Beatles!” e sicuramente fa in modo che in me nasca un qualche tipo di ammirazione “professionale” nei confronti di Alberto Ferrari. “Canzone ostinata” invece si appoggia su un tappeto di chitarre acustiche che tanto piaceranno agli estimatori della nuova leva cantautoriale italiana, ma quella scanzonata di Dente, Brunori SAS etc, non quella banalmente radical-chic che – ovviamente – piace alla maggior parte del pubblico indie. Ma c’è posto anche per richiami ai Radiohead più terrificanti, quelli di “Pyramid Song”, “Everything in its right place”, tutti in “Letto di mosche”, che prova anche un’artificiosa finta tra la banale critica al presente ed il Trainspotting, che naufraga tristemente soffocata da un’armonia così disperata da non concedere spazio ai sorrisi. La conclusione di questo ritorno in grande stile dei Verdena è affidata a due pezzi, “La Volta”, un’acido strumentale che fa molto colonna sonora di horror nostrani e “Lei disse (Un mondo del tutto differente)”, fatta di sospensione, due pezzi che rappresentano interessanti segmenti delle mille sfaccettature dei pensieri sempre più impenetrabili di uno dei gruppi che ha fatto, sta facendo e farà, (almeno fin quando si potrà cigliare) la storia dell’indie rock italiano.
(Mario Mucedola)