Lo ammetto, sono un po’ preoccupato. Di album che ti ipnotizzano così irreversibilmente al primo ascolto ne possono capitare due o tre all’anno, non di più. Uno me lo sono già giocato, ed è solo gennaio. È solo inverno.
L’inverno è una stagione strana, di quelle che confondono. Ci sono tanti inverni, almeno quante sono le anime di chi li trascorre. Ci sono quelli che si siedono accanto al fuoco, sereni contemplano la neve che avvolge gli alberi, sorseggiando caffè caldo. Di solito sono gli stessi che poi comprano i dischi di Sting. Non mi sto rivolgendo a loro.
Questa è musica per chi l’inverno lo vive nel buio di notti sempre più lunghe, tra coperte gelate e nessun corpo da scaldare. Per chi ha la pelle consumata dal freddo, mentre attraversa in silenzio la città tra la nebbia e i neon. Non proprio la descrizione di Caltanissetta, diciamo. Eppure è da lì che arrivano i Marlowe, che con il loro quarto album Fiumedinisi si candidano ufficialmente a band-cardine del nuovo anno. Atmosfere oscure, sostenute da una capacità di scrittura rara e una messa a fuoco del suono da far invidia a fior fior di colleghi anglofoni. Chitarre liquide, tappeti noise, una solida sezione ritmica. Il cantato inquieto di Salvo Ladduca si insinua tra le pieghe della notte, sussurrando lividi versi . C’è molto di Cesare Basile, loro mentore fin dagli esordi, nel sound dei Marlowe, ma anche i Marlene Kuntz di “Ho ucciso paranoia” e gli Afterhours di “Quello che non c’è”, fino ai C.S.I. di “Linea gotica”, mentre tra i solchi più profondi del disco qualcuno ha gettato i cattivi semi di Nick Cave. “Fiumedinisi” è un disco maturo, omogeneo, sofferto senza essere depresso. É un disco pericolosamente affascinante. “Chiedi al buio”, “Dei tuoi miracoli”, “Fino alle ossa”, “2 maggio”, “In fondo alla gola” (che vanta una splendida partecipazione di Angela Baraldi alla voce) sono piccoli capolavori, in grado di marchiarsi a fuoco nel cervello e non abbandonarti più. “The last day swimming” sembra uscita dall’ultimo album di Hugo Race, mentre “Di fame e di madre” rimanda ai Massimo Volume più eterei. La conclusiva “La stanza di Veronica”, uno degli apici del disco, è una gemma di rara bellezza con echi di post-rock.
Cosa dire di più? C’è solo da augurarsi che i Marlowe ricevano il riconoscimento che si meritano, perché di lavori così intensi c’è fame. E, almeno per una volta, ci siamo saziati.
(Federico Anelli)