I Somnambulist sono un trio italo/francese di stanza a Berlino con un nuovo album uscitoo diversi mesi fa dal titolo Moda Borderline (su Acid Cobra, etichetta dietro la quale si nasconde Mr.Ulan Bator Amaury Cambuzat). Hanno un moniker tanto affascinante quanto la proposta musicale partorita dalle tre personalità cui vi albergano; Sono un viaggio senza coordinate e senza precisi riferimenti musicali a cui aggrapparsi, per dirla con le parole di chi ha recensito il disco (e redatto questa intervista): “La band è un panorama luminoso oltre la montagna nascostasi tra le nubi, ispirati quanto capaci detengono un potere che è comune a pochi”. Alle nostre domande risponde Marco Bianciardi, chitarrista cantante del gruppo.
Sembra quasi una barzelletta, un francese, un tedesco ed un italiano; potete raccontarci come vi siete conosciuti?
Non ci è molto chiaro perché si sia sparsa la notizia che il milanesissimo Marcello sia in realtà tedesco, benché viva in Germania da più tempo. Probabilmente la tentazione della barzelletta era troppo forte: “un francese e due italiani” non suona altrettanto bene! Ho conosciuto Rafael tramite un annuncio in rete quando, appena arrivato a Berlino, mi sono messo alla ricerca di persone con cui suonare. Successivamente mi è capitato per caso di ascoltare Marcello in un club dove stavo lavorando quella sera come barista. Per un po’ ho lavorato con loro due parallelamente: Raf mi accompagnava al violino durante le prime esibizioni semi-acustiche di The Somnambulist, mentre con Marcello facevamo delle lunghe improvvisazioni per chitarra e batteria che avrebbero dovuto confluire in un progetto chiamato Infinite Monkey ShowModa Borderline durante l’estate del 2009, non mi è venuta in mente la semplice idea di unire le due cose ma che al momento non ha ancora visto il suo debutto dal vivo. Finché, in occasione delle registrazioni di Moda Borderline durante l’estate del 2009, non mi è venuta in mente la semplice idea di unire le due cose.
Vi sentite un gruppo “borderline”?
Dipende dal significato del termine. E’ dura definirsi come band quando quasi per regola evitiamo di concedere interpretazioni univoche della nostra musica, in modo da lasciarla agli ascoltatori piena di ambiguità così com’è. É quasi tragico essere costretti, per esempio all’interno del programma dei concerti di un locale, a dichiarare un genere musicale specifico da associare al nostro nome: ogni etichettatura è un epitaffio, in qualche modo. Di certo posso dire che ciò che facciamo si colloca in una sorta di terra di nessuno, che mi piace intendere non tanto come punto di incontro fra diversi generi musicali o il risultato della loro somma, bensì come loro differenza. Questo progetto è ancora al suo inizio, e son convinto che dopo l’uscita di un altro paio di album sarà molto più chiaro intuire che tipo di percorso abbiamo appena intrapreso.
I caratteri “epici” di questo lavoro, come ad esempio i 12 minuti ed oltre di Quinto Mistero Della Gioia, sono un po’ il vostro marchio di fabbrica: è una specie di tributo ad un prog-rock ormai perso nel tempo e negli angoli bui della memoria, è un’evoluzione spontanea che nasce nell’immediatezza dello studio di registrazione oppure il frutto di un’accurata pianificazione fatta in precedenza?
Diciamo che si tratta di una sorta di immediatezza pianificata, in questo caso specifico. Il pezzo di cui parli per esempio ha una doppia anima: metà delle tracce seguono delle strutture armoniche e ritmiche che sono state costruite e ricostruite precedentemente in ogni microscopico dettaglio, mentre l’altra metà contengono liberissime improvvisazioni ed elementi casuali come segnali radio processati che sono stati registrati in tempo reale. Il mistero, appunto, sta in come riescano a convivere insieme due o più pratiche, diversi modi di pensare la musica che normalmente si escludono a vicenda. E tornando a quello che tu hai chiamato epicità – così come in altri brani può essere una certa ironia nascosta sotto atmosfere crudeli, i flirt con il pop e la rottura delle sue aspettative, la presenza apparentemente ingiustificata ed instabile di elementi all’interno di un contesto che sembra loro inadeguato e via dicendo – posso dire che tutto questo è provocato da un nostro atteggiamento che mira a far convivere punti di vista diversi su ciò che accade in quel dato momento di una canzone. La cosa detta in questi termini potrà sembrare studiata a tavolino, ma posso garantire che tutto ciò viene fuori in modo molto spontaneo ed emotivo, e che eventualmente ci riflettiamo sopra solo quando sta per giungere a conclusione.
Quali sono le influenze musicali che maggiormente vi hanno ispirato per questo Moda Borderline?
É difficile dirlo, soprattutto per non cadere in un eccesso di chiarezza. Nel gruppo siamo tutti degli onnivori musicali, ascoltiamo e ci lasciamo ispirare da cose anche radicalmente diverse tra loro; senza contare che il disco ha avuto una gestazione abbastanza lunga durante un periodo nel quale sono cambiate tante cose. Personalmente desideravo davvero un disco che non avesse una precisa atmosfera unificante, ma che fosse un caleidoscopio stratificato su più livelli. Qualcosa di più affine a ciò che si può trovare in molti dischi della fine degli anni ’60, piuttosto che a certe produzioni contemporanee che spesso danno l’impressione di concedere al pubblico più risposte di quante domande siano in grado di provocare.
Come è nata l’idea per il video di Red Carpet?
Niente di speciale: ho solo raccolto varie riprese fatte durante i nostri tour con una macchinetta digitale da quattro soldi e le ho incrociate con le immagini registrate ad un concerto da un amico con una telecamera più professionale. Poi col montaggio mi son divertito a creare, o meglio a forzare, dei collegamenti a posteriori, soprattutto quando risultavano abbastanza improbabili.
Non deve essere facile riuscire a combinare le immagini per un genere musicale dai contenuti “difficili” come quello che proponete voi, è stato tutto in salita oppure le vostre particolarità sonore vi sono state d’ispirazione?
Un amico appassionato della nostra musica tempo fa mi ha detto che c’è nelle nostre canzoni un qualcosa di indecifrabile, una specie di senso di attesa che appesantisce, per così dire, lo scorrere del tempo e lo rende plastico e tangibile, come un corpo in movimento che puoi quasi toccare. E questo credo non si discosti molto da certo cinema o videoarte che dir si voglia. Quando quattro anni fa provai per la prima volta a dirigere un mediometraggio, Liebe Macht Frei, mi resi conto alla fine di essere andato nella stessa direzione della musica: era di nuovo una scultura fatta di tempo, cambiava solamente il mezzo usato per ottenerla.
Il movimento indie in Germania sembra essere, per così dire, una novità assoluta. Come vedi il presente, e perché no, il futuro di questo genere?
In tutta sincerità ho un po’ di allergia nei confronti dell’indie, tedesco e non. E non parlo dell’indie di vent’anni fa. Da una parte ammetto di essere abbastanza polemico da prenderne le distanze, dall’altra, per quanti sforzi abbia fatto per capirlo, non riesco onestamente a vederne il carattere di novità. Poco tempo fa ho obbligato me stesso, per aggiornarmi, a fare una bella scorpacciata di gruppi contemporanei, di quelli ben allineati coi tempi. Ho ascoltato ripetutamente svariati dischi alla ricerca di qualcosa di nuovo da imparare, sospendendo ogni giudizio affrettato e superficiale. Anche se ci ho trovato un’enorme ventaglio di soluzioni interessanti nella produzione e una grande sapienza tecnica, per la maggior parte mi hanno lasciato interiormente vuoto, se non a volte innervosito o con un principio di mal di testa; soprattutto in quei casi dove l’aspetto emotivo e la ricerca dell’originalità mi sono sembrati talmente ostentati da risultare a dir poco sospetti. In poche parole ci ho visto un gran narcisismo e poco spirito di sacrificio, artisticamente parlando. E per il futuro non posso che augurarmi che arrivi presto un nuovo terremoto, come alla fine degli anni ’70 o l’inizio dei ’90, a spazzar via tutto il superfluo e riportare la musica in acque più profonde e sincere.
Cosa vi distingue dai gruppi concorrenti che si muovono in questo tipo di panorama?
Forse la convinzione che affermare che tutto sia in qualche modo già stato fatto e che non sia più possibile creare qualcosa di radicalmente nuovo, sia un’ingegnosa scusa per non ammazzarsi troppo di lavoro. Il che non vuol certo dire che siamo o saremo innovativi, non sta a noi deciderlo o interessarcene, ma che in ogni caso ci ammazziamo di lavoro per fare quello che facciamo.
A chi consigliereste un disco come Moda Borderline?
A tutti, perché è stato fatto in modo tale che chiunque può vederci dentro quello che vuole.
Quali sono i progetti futuri, se è possibile rivelarli, di The Somnambulist?
Abbiamo fra le mani un disco registrato dal vivo l’anno scorso che ci piacerebbe molto pubblicare. É una rilettura in chiave improvvisativa di nuovi e vecchi brani, con la partecipazione di musicisti che gravitano attorno alla scena jazz di Berlino come Chris Abrahams di The Necks e Els Vandeweyer dell’IMI Kollektief, fra gli altri. Inoltre registreremo a breve il seguito in studio di Moda Borderline, probabilmente con il titolo di Sophia Verloren, per poi preparare una colonna sonora dal vivo per il film muto del ’27 “Die Symphonie der Großstadt” di Walter Ruttmann, che presenteremo il prossimo Maggio a Bordeaux per il Centro Jean Vigo e il Goethe Institut.
(Lorenzo Tagliaferri)